Un uomo che precipita.

Un grattacielo.

Una macchia nel cielo.

Un uomo che precipita.

Un aereo.

Una macchia nel cielo.

Un uomo che precipita.

Queste due fotografie strazianti sono figlie della stessa disperazione. Potrebbero essere due semplici immagini stampate su carta fotografica, quella carta che taglia l’aria e si conficca come coltelli nella testa. Quella disperazione dovrebbe appartenerci, dovrebbe appartenere a tutti noi. Dovremmo sentircela addosso.

Odio, intolleranza, pregiudizio, fondamentalismi.

Violenza , arroganza, viltà, menefreghismo, superficialità, noncuranza. Questi siamo noi. Tutto questo ci appartiene.

Non possiamo rimanere indifferenti, non possiamo. Eppure so che rimarremo a guardare, come per tutto ciò che non tocca i nostri privilegi, come per il genocidio in Ruanda, come abbiamo guardato con distacco tutte le Guerre Sante alle quali non ci siamo opposti, come abbiamo dimenticato una guerra che in Afghanistan dura da venti anni, come rimaniamo a guardare ogni giorno barconi di disperati che riescono a partire dai lager libici, dopo anni di viaggio, sperando nella salvezza sulla nostra terra o nella morte in mare, che sarebbe comunque più accettabile che il rimpatrio dagli aguzzini libici, pagati con i nostri soldi per nascondere l’immondizia, la desolazione che la nostra “benedetta” società occidentale produce.

La nostra immondizia, la nostra merda.

Siamo rimasti a guardare gli splendidi risultati del post-colonialismo in Africa. Era affar nostro quando eravamo li a far da padroni, a saccheggiare le loro terre, a denigrare la loro cultura. Poi abbiamo finto di andarcene, abbiamo diviso un intero continente a dadini e listarelle come una ben disegnata scacchiera ed abbiamo lasciato li i nostri fanti e i nostri alfieri. Di guardia.

Perché della loro cultura, del loro benessere, a noi, diciamoci la verità, non ci è mai fregato un cazzo. La loro povertà, le loro guerre, servivano a foraggiare il nostro benessere.

Abbiamo alzato muri, esportato armi, imposto dittatori. Abbiamo lasciato bambini morire nell’inferno delle miniere di diamanti, di coltan e cobalto.Ci serviva l’anello di fidanzamento più bello per fare invidia alle amiche, il brillocco più grande, il cellulare con le tecnologie più avanzate per farci i selfie.

E che importa se c’era chi, per costruire Oleodotti, per estrarre petrolio, insinuava in noi il germe della guerra giusta. Ci siamo convinti che la democrazia si potesse esportare con le armi, e no, non ci hanno convinti i media, lo abbiamo fatto da soli, perché ci potessimo permettere di non pensare, perché era più comodo non farlo, perché potessimo permetterci di chiudere gli occhi e continuare a vivere le nostre inutili, mediocri ed insulse realtà.

L’occidente, una mandria che ha bisogno di influencer per pensare: ci devono influenzare perché noi, a pensare da soli, evidentemente non siamo capaci. E nonostante sia palese che non abbiamo la minima capacità di pensiero indipendente, ci arroghiamo il diritto di avere opinioni.

Muti dovremmo stare. In silenzio.

Giorno dopo giorno, un anno per ogni anno di guerra di cui siamo stati complici.

A guardare questo orrore.

Ad ascoltare il boato delle mine antiuomo che fanno a pezzi bambini che giocano.

A guardare un padre disperato che tiene in braccio il suo bambino senza vita.

A guardare il corpo di un bimbo morto affogato su una spiaggia.

A guardare il sangue colare dalle gambe dalle donne violentate, massacrate di botte e piene di lividi.

Che non sia solo la condivisione di post pseudo intellettuali sull’argomento del giorno di finta indignazione.

Che ci entri nelle ossa, che ci dilanii, che diventi finalmente anche il nostro orrore.

Che diventi finalmente anche il nostro dolore. La nostra disperazione.

La disperazione di un uomo che precipita.

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