Mi vedi, Florinda?

Di tanto in tanto mi rabbuio per le chat sciatte e insulse con superuomini di turno. Poi ci sono notti in cui riesci a comunicare, a sentire, ad immaginare e non sai neanche come ma quel veleno, quel piccolo dolore, quel maledetto punto interrogativo, lo tiri fuori. Qualcuno che sa sentire, qualcuno che sa ascoltare. E fai pace infine ed inaspettatamente, con un pezzo di mondo.

“A: Hai presente quella sensazione che ti da lo champagne buono il primo mezzo bicchiere?

E: Ni. Raramente ho bevuto champagne. Una questione di sopravvivenza.

A: Ma quanti gamberi ci sono a Mazara e i pistacchi di Bronte poi?

E: Secondo me tantissimi. Puoi raccogliere gamberi da splendidi alberi e pescare ottimi pistacchi in Sicilia, è una terra generosa.

A: Si dice così?

E: Si.

A: ops…e ora…Chi e’ sta zoccola che mi scrive nell’altra chat? Ma tu non sei gelosa.

E: Già.

A: E tu in tutto questo dove sei, corporea ed evanescente, tu con le tue preoccupazioni, le tue aspirazioni, la tua vagina glicemica ed intelligente, i tuoi rodimenti di culo?

E: Sto studiando per esorcizzare le preoccupazioni e i rodimenti di culo. Ogni tanto ti leggo e piango.

A: Chi siamo?

E: Forse il racconto che ci commuove.

A: Mi sai dire veramente chi siamo e sapresti dirmelo davanti ad un bel piatto di pasta alle cozze e vongole?

E: No, ma se servisse al tuo secondo romanzo potrei fingere di saperlo.

A: So du kili in più, che faccio, lascio, Signo’?

E: Lasci pure.

A: Tantissime cose urgono, tutte un po’ retoriche e tardo romantiche, come chi posta le foto dei gattini con gli aforismi di fabio volo. O chi posta una papavero ed una farfalla che ti guarda con le ali, suggerimenti intimi e genitali, femminei troppo femminei. E mi sento in colpa perché non riesco a chiudere mille conversazioni con mille donne sole, quando forse dovrei parlare solo con te.

E: …

A: Puntavano i piedi, ma volevano solo essere viste. E tu, mi vedi, Florinda?

E: Uomini, donne, categorie. Necessità di definire, di definirsi. Trovare un posto, il proprio posto, conoscere per capire, capire per conoscersi. Ed infine, emettere un giudizio per siglare con un atto irrevocabile, un testamento identitario, chi siamo, o forse dovrei scrivere, chi abbiamo deciso di essere ai nostri stessi occhi e a quelli degli altri. .

Perché alla fine siamo tante cose ma per qualche motivo, lasciamo che il nostro stesso giudizio ci ritagli, ci mutili, ci amputi.

Ho passato una vita a sezionare e scartare pur di definirmi.

Non so poi quando sia successo, mi sono svegliata una mattina, infelice, imprigionata, delusa ed ho pensato a mio padre. Un uomo arrogante, solitario, geniale, arrabbiato. Un uomo sensibilissimo che per tutta la vita ha cercato rabbiosamente di determinare chi fosse senza veramente riuscire a sentire il suo valore. Un uomo che sono riuscita a “vedere” veramente solo quando se ne è andato via all’improvviso a 59 anni.

Mio padre era tante cose, eppure per la maggior parte della mia vita, ho visto in lui solo una parte dell’uomo che era. Non ho parlato con i miei genitori per la maggior parte della mia vita. Il periodo più lungo, 7 anni. Oggi so che sono stati entrambi, per me, due esemplari straordinari di complessità, forza, umanità e fragilità. Li vedevo come due genitori imperfetti, come una coppia mal assortita, ma era la categoria in cui li avevo io stessa relegati che non mi permetteva di guardarli nella loro interezza e nella loro personalissima, fragilissima bellezza di esseri umani. Imperfetti, eppure così perfetti per me.

Credo di aver accettato in quel momento di essere tante cose. Ho tolto la maschera: quando l’ho fatto, non era rimasto nulla da giudicare, né di me, né di altri. C’ero solo io, con quello che sento, nel bene e nel male, ma decisa a non rientrare più in quella prigione fatta di inutili certezze e comode illusioni.

Sono dolce, sono emotiva, sono sensibile, un angelo.

Sono dura, tagliente, cinica, severa, arrogante, una troia.

Sono. Una parola che usiamo spesso, che uso spesso. Un verbo tanto utile quanto pericoloso. Ci invita urlando a fare una scelta, a scegliere un ruolo.

Si ha paura, in fondo, ad essere tutto. Nel tutto, nelle infinite possibilità, anneghiamo. Non si può esimere “tutto” dal giudizio.

Ti chiedi se scegliere di essere un monaco buddista o un vizioso Jean.

E se la soluzione fosse non scegliere nulla. E se la risposta si rivelasse nello scegliere di essere tutto. E se la serenità si trovasse nell’accettare che possiamo scegliere di essere qualunque cosa ed il suo contrario.

Non vorrei morire pensando a chi sono stata, piuttosto a quanto ho sentito.

Certo, ha un prezzo. La stadera varrà per tutti, ci metterà di fronte esseri umani con la nostra stessa complessità, che non potremo costringere in una categoria, che non potremo definire, a cui non potremo chiedere di essere, ma solo di sentire. Qualcuno ci presenterà sempre il conto, un inesorabile ed inconfutabile giudizio. Quanto siamo disposti a pagare per la nostra libertà, per la nostra interezza?

Mi hai chiesto “ Mi vedi Florinda?”.

Ti rispondo “Vuoi davvero essere visto?”

Pensaci bene. Oppure vuoi che veda solo l’uomo che hai ritagliato per te stesso?

Io non voglio essere vista. Non da questa umanità, da occhi giudicanti, da maschere inconsapevoli e ben ancorate ad inutili punti fermi su un pianeta in costante rotazione, un universo in rapida espansione e danzante nell’entropia.

Non siamo pronti per vedere. L’impellente, inarrestabile desiderio di definire finirebbe per farci a brandelli, per fare l’altro a brandelli. Usiamo l’altro come uno specchio, una bilancia per dirci quanto siamo belli, quanto siamo brutti, per misurarci, per pesarci, ma l’altro, raramente lo vediamo, così presi dall’ urgenza di autodefinirci.

E poi cambiamo. Cambiamo e il cambiamento ci confonde, siamo costretti a ridefinirci, a ricominciare a sezionarci.

Personalmente sono stanca di tutto questo inutile autolesionismo. Voglio imparare ad accogliere, ad abbracciare, ad unire, che sia me stessa o l’altro. Vorremmo tutti essere amati. Forse più di tutto vorremmo che di noi si amasse il bambino che ci portiamo dentro, inascoltato, incompreso, lasciato li in un fazzoletto di cuore a giocare da solo.. ma del bambino dovremmo anche accettare l’intemperanza, la lunaticità, l’insofferenza, la volubilità.

Allora forse la vera domanda non dovrebbe essere “ Mi vedi?” ma piuttosto

“ Vuoi giocare con me, nonostante me?”.

Perché l’universo non avrà pietà di noi.

Immagine di Vladimir Fedotko

L’ultima lettera.

Ascoltando Niccolò Fabi: Scotta.

Sono giorni che provo a scrivere, scrivere mi ha sempre aiutato a chiarire i movimenti del mio cuore, da sempre così ben corazzato, al punto che io stessa fatico spesso a decifrarlo.

Credo si tratti di lutto. Della realizzazione che qualcosa è andato perduto. 

Qualcosa si è spento, qualcosa mi ha lasciato, e con esso la speranza che ritorni. E non è la sua mancanza a far male, ma l’idea che quel tipo di felicità, non ti appartenga più. Non un uomo, piuttosto un’idea, effimera come un sogno. 

Avevo una lunga lista di desideri da ragazza, una lista che rileggevo spesso per essere certa di non perdermi. A parte forse cappello e borsa originali della Poppins, credo di averli realizzati tutti, sebbene alcuni in qualche forma di declinazione che seppur inaspettatamente, comunque mi appartiene.

“Un buffetto sul sedere a 80 anni”.

Matematica alla mano, ho ancora qualche anno per provarci, mi dico, ma le parole ed il cuore stavolta, sono in disaccordo. 

A chi mi dice che sono ancora giovane, che ho ancora tempo, vorrei rispondere: “ Ma è davvero di tempo che si tratta?”.

O la consapevolezza che piuttosto, non sia mai stato facile per me?

Non cercavo la perfezione, cercavo la magia.

E’ così rara, la magia, al punto che a volte, seppur molto poco di frequente, mi sono illusa di averla trovata.

Ora so, che se magia c’era, non apparteneva ad altri se non a me. 

E’ doloroso, e sebbene mi ripeta che in fondo ad ognuno spetti in fin dei conti una dose di tristezza, la consapevolezza non aiuta a lenire la pena. 

Adulta forse, ma ancora così piccina in fondo, con una piccola valigia dove non è rimasta che una piccola bacchetta. 

E’ magica, mi dico. E’ magica, lo so. 

E’ tutto ciò che vi ho lasciato riposto. Ho gettato via le lunghe lettere d’amore che sin da ragazza e per molti anni scrivevo ad uno sconosciuto. 

Per lui, per anni, ho raccolto poesie, fotografato arcobaleni, riposto libri che avrebbe dovuto leggere, che si, gli sarebbero piaciuti, dischi e musica, immagini di posti dove con lui avrei voluto tornare.

Era pronta la valigia, pronta a partire per un viaggio fatto in due. Sarebbe stato lungo, mi dicevo, ma mi sarei accontentata di qualche anno in meno, se entrambi fossimo stati così “distratti” da non riconoscerci subito. 

Poi è successo che un giorno, ho semplicemente smesso di crederci. Ho svuotato tutto, parole immagini, pensieri, emozioni, sogni, ma la bacchetta no, quella magica bacchetta non sono riuscita a gettarla via. 

In quella valigia ho lasciato solo un piccolo desiderio. Che se doveva essere, sarebbe stato magico.

Imperfetto, ma magico. 

Malandato forse, ma pieno di poesia. 

Io che vesto di nero, ho comprato un vestito rosa per te. 

Un abito che non potrei vestire con nessun altro se non con te, che vedendomelo buffamente indossare, non avresti alcun imbarazzo e che piuttosto mi sussurreresti che si, è bello “Ma manca qualcosa Due grandi ali bianche e la bacchetta magica che hai riposto in quella valigia”. Tu lo sapresti, Tu le vedresti, tu me le porteresti. 

Quelle improbabili ali bianche che così forte sento e che non so vedere. 

Ed uscire finalmente, mano nella mano, passeggiare lungo una spiaggia, in un pub, in un posto qualunque, in giro per la mia amata Roma, maldestramente inciampando sui sampietrini con i tacchi e sentirmi bella per te, con te. Con sfrontatezza, reciprocità e sublime sconcezza. E di nuovo volare. E di nuovo respirare. 

Sono qui a scriverti che avrei voluto incontrati prima, per regalarti la mia giovinezza, un corpo più bello ed un cuore ancora capace di tenerezza. Sono qui a scriverti che ti ho cercato a lungo ma temo che la vita mi abbia distratta, o forse, si sia distratta lei. 

Ho due cani, vivo sola in una piccola casa, ma comoda per due. Ho piantato dei fiori e attendo sempre con ansia la primavera, quando i loro colori, per qualche tempo, riescono a farmi dimenticare l’amarezza e portano via la nostalgia.

Ed eccomi qui, stanca, indurita, impenetrabile, imperfetta, con gli anni che volano via e senza alcuna certezza che quella mia bacchetta, quel cimelio riposto da qualche parte nel mio cuore, sappia ancora, in qualche modo funzionare, ma con un giardino pieno di fiori. 

Ti ho cercato, e credimi se ti dico che in rare occasioni o pensato di scorgerti negli occhi di qualcuno. 

Non essere geloso, in qualche modo, dovevo pur decifrare i segnali, in fondo, non ho mai saputo il tuo nome. 

Così forse non ci troveremo, ne mai ci incontreremo, ma ti scrivo stanotte per dirti che ti ho braccato ferocemente, nella mia vita, nei mie viaggi, in ogni stazione, in ogni remoto aeroporto, nelle mie fotografie. 

Ti scrivo per dirti che avevo una valigia piena di cose per te ma che si, alla fine, mi sono arresa. 

Ora non mi resta altro che una piccola bacchetta, per ricordarmi che non si deve mai smettere di cercare la magia, anche se certi incantesimi, non funzionano più. 

Anche se certi incantesimi non funzioneranno mai. 

Sono qui a scriverti che mi rimangono solo pochi anni per realizzare il mio ultimo desiderio:  “ un buffetto sul sedere a 80 anni”. 

Sono qui a scriverti che no, non è il tempo a farmi paura, ma i miei limiti. 

Sono qui per dirti che sono stanca, che se per tanti anni ti ho cercato, ora dovrai farlo tu.

Sono  qui a dirti che sarà difficile riconoscermi, tanto sono cambiata, eppure da qualche parte nell’universo, non più giovanissima, possiedo ancora la mia bacchetta. 

E dato che non conosci il mio nome, né il mio volto, non cercare quella donna che avevi immaginato per te tanti anni fa.

Cerca la magia con la magia. 

Allora forse, malandati e non più giovani, con il cuore pieno di cicatrici, ci riconosceremo. 

E se non dovesse essere, non sarà poi la fine del mondo. Se “la felicità è un momento di distrazione mentre la mano sul fuoco scotta”, in questa vita sono stata sbadata il giusto. 

“Allora si aspetta di essere cercati di nuovo e si resta a occhi aperti di notte, aspettando il passo di chi torni a reclamarci. Ma, nessuno torna e dopo il giusto tempo si è di nuovo se stessi, sciolti dal possesso, liberi perché si diventa liberi dopo essere stati perduti”.

Erri De Luca

Certe equazioni non tornano mai.

 

Rimango sempre ammirata davanti alle vite degli altri: esseri che si districano tra algoritmi imperfetti e funzioni improbabili contenute nella loro grande equazione della vita.

In qualche maniera, il risultato di queste formule straordinarie di sopravvivenza, riesce sempre a dare un numero positivo e finito.

A dire il vero, ho cercato di risolvere la mia equazione sin da piccina, ma per quanto provassi, per quanto diligentemente mi applicassi, il risultato sembrava sempre essere un numero infinito con il segno meno davanti.

I conti non tornavano neanche quando in fondo, c’erano in gioco delle semplici addizioni.

Mi sono resa conto piuttosto presto di aver qualche lacuna, di come nessuno mi avesse fornito i mezzi per creare un’equazione che avesse infine una soluzione, così mi sono dovuta un po’ ingegnare…e anche in la con gli anni, quando ero vicina a trovarne una, a mettere insieme addendi, sequenze, integrali ed algoritmi, ecco che un numero, infinitesimamente piccolo, tutto ad un tratto, cambiava, così da dover cominciare da capo.

Pensavo che forse, invece di svolgere la mia di equazione, avrei potuto stare a guardare quelle degli altri, per capire dove giaceva in me l’errore della complicazione matematica.

Ed ormai, da che che ne ho memoria, sto li ad ammirare in disparte le altrui equazioni, seduta a guardarne eseguire lo svolgimento per anni interi, nella sempre più “matematica incertezza” che la mia, non sia un’equazione risolvibile.

E’ anche vero, che quando stai li a guardare, ti accorgi che nella maggior parte dei casi, le equazioni tornano perché le persone barano. Riesco ad ammirarli anche per questo.

Cambiano un numero, un fratto, una radice minuta e perfettamente quadrata, e la funzione, torna sempre: la cosa si è complicata con il tempo, quando ho capito che il loro risultato, per sinaptiche connessioni fuor di stesto che mio malgrado legano me a questo complicato universo, influenza i numeri della mia, magari anche un ridente 2 che diventa un malinconico 1, ed ecco che, nella mia fottutissima equazione, non mi ci ritrovo più.

Così eccomi qui: a dirvi che davvero no, non riesco a risolvere la mia equazione.

Mi sono chiesta spesso se, come altri, dovrei semplicemente barare e fingere fattori diversi, sottrarre addendi, elevare a potenza l’ego ed inserire a casaccio una tetrazione, ma poi lo so che no, non sarebbe la mia equazione.

Quell’equazione che mi spinge a guardare dentro me stessa oltre il limite del sostenibile, quella che ha bisogno di capire quali siano i numeri reali e quali non appartengono al sottoinsieme dell’insieme, seppur nell’assoluta consapevolezza che la mia, è una lotta contro le leggi della fisica, che la realtà non esiste come una, ma che piuttosto la vita ne contempla numerose così come infiniti universi, dove la mia equazione si risolve, sia pur anche in un numero infinito con il segno meno davanti, ma ogni volta diverso.

Credo dipenda dai quanti. Dannatissimi quanti.

Non vogliono proprio dartela, la soluzione, si limitano a mostrarti che la tua, nel mondo reale non esiste, che nell’universo quantistico hai tutte i risultati del mondo senza averne alcuno.

Quindi lo so, che il problema poi, è un po’ tutto li: bambina un po’ smarrita in un mondo che non quadrava, sono rimasta piccola piccola, mi sono fatta piccola piccola, per non disturbare, in punta dei piedi sempre e sempre più piccola, fino a divenire un piccolo, piccolissimo quanto, in un universo con leggi che cambiano senza avvisare.

Ed in questa dimensione microscopica, ad un certo punto, mi sono semplicemente persa: talmente piccola da non vedermi, non sentirmi, non toccarmi. Talmente piccola da non permettere agli agli di vedermi, sentirmi toccarmi.

Allora mi è venuto in mente un capitolo dell’Ulisse di Joyce, Itaca, dove, Mr. Bloom cerca di spiegare a a Stephen Dedalus le sue meditazioni sull’ordine di grandezza delle distanze e dei volumi delle stelle, della durata del tempo, del numero degli organismi microscopici e delle cellule. Putroppo Bloom, non sa dare, alla fine, un risultato preciso dei suoi calcoli, spiegando il problema così:

“Qualche anno prima, nel 1886, quando era occupato con il problema della quadratura del cerchio, era venuto a sapere dell’esistenza di un numero calcolato con relativo grado di precisione da essere di grandezza tale e di così tante cifre, ad esempio la nona potenza della nona potenza di 9, che una volta ottenuto il risultato, sarebbero stati necessari 33 volumi stampati strettamente di 1000 pagine, ciascuna ottenuta da innumerevoli risme di carta India, per contenere il racconto completo delle sue cifre stampate di unità, decine, centinaia, migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni, decine di milioni, centinaia di milioni, miliardi, il nucleo della nebulosa di ogni cifra di ogni serie contenendo in breve la potenzialità dell’essere elevata all’estrema elaborazione cinetica di qualsiasi potenza di qualsiasi delle sue potenze”.

Ecco, mi chiedo se anche io non faccia poi parte di quella fetta di umanità cui le equazioni non sono risolvibili o, se lo sono, il risultato è comunque imperscrutabile.

Speravo davvero che, stavolta, l’equazione, seppur nella complessità della sua elaborazione, avrebbe funzionato.

E invece poi va sempre un po’ così: nel mio piccolo ed infinito mondo quantistico, non riesco davvero a rassegnarmi all’idea di come, certe equazioni, non tornino mai.

Notti di straordinaria buffezza

Ascoltando canzoni terribilmente leggere

Serate come questa meritano almeno qualche riga: per ricordare e ridere, ancora un po’.

Ancora un po’.

Non faccio altro da ore.

La serata di per se,  non ha forse nulla di particolarmente diverso dalle altre 1000 in cui i piedi non smetterebbero mai di ballare.

Però stanotte ridevo, ridevo, ridevo di quel riso funambolo, a metà tra un film comico ed un tipo di felicità, dovuta assolutamente a nulla.

NO, non è stato l’alcol.

Notti come queste non hanno bisogno di una colonna sonora: o forse proprio non la puoi trovare una colonna sonora per notti come questa, tanto, la serata, è stata così piena di tutto.

Ci vorrebbero mille canzoni,  o almeno quasi quante ne ho ascoltate da quando ho ripreso il motorino, abbracciando per la seconda volta in una settimana il buttafuori che ormai mi riconosce quando arrivo, e soprattutto quando vado via, pretendendo di partire sempre e comunque senza togliere la catena.

E da sola ridere. Ripensarci e ridere.

E con lui ridere.

E di nuovo, mettersi in moto, verso casa, e continuare a ridere.

Fermarsi da sola al bar, per cappuccino e bollente cornetto alla crema, e si, ancora, immancabilmente, ridere.

Guardare la bariste polacche con un fare vagamente stalinista.. e ridere.

Salutare, seduto ad un tavolino,  un solitario sconosciuto che ti ha seguito con lo sguardo “Buonanotte anche a te”, e si, sorridere.

Stanotte credo di aver capito: il mondo è tremendamente buffo. A tratti sa essere gretto e meschino, ma se lo guardi dalla giusta prospettiva, è davvero buffo.

Sono buffe le persone, le cose che accadono.

E sono buffi i ragazzi che credono che tu non sai, i ragazzi che non sanno che tu senti, eccome se senti, e senti molto più e meglio di loro.

I ragazzi sono buffi e se ne trovano di tutti i tipi.

I più simpatici sono i Collezionisti: i tipi che ti devono conquistare, che ogni weekend vanno a caccia di prede, altri passano ore in chat, a caccia di ragazze con cui farsi video ( non ho capito bene se per praticare in seguito sano autoerotismo e per caricarli su Youporn e farsi applaudire da una manica di sfigati) . A titolo puramente chiarificativo non ho nulla contro i video amatoriali, ma miseria, spererei di tenere certe forme di erotismo a dimensioni quantomeno più intime e private.

Tentano con nonchalance di farti sentire splendida, riempiendoti di vuoti complimenti pensando di aver davanti una ragazzetta fragile e bisognosa di amore: lo vedi il loro sguardo quando improvvisamente, vagamente narciso, si dicono “Ok, è quello giusto, agganciata”.

E tu abbassi il tuo e fai la timida.

Perché se davvero riuscissero a guardarti, se davvero ti vedessero, se davvero ti leggessero, capirebbero che non hai abbassato lo sguardo per timidezza, ma per non ridere. E magari ci giochi anche un po’ con loro, senza malizia, giusto per tenerti  impegnata un po’ di tempo ( un’ora, una settimana e anche due) tra una risata e l’altra.

Non hanno interesse, né forse tanto meno le capacità, di leggere tra le pieghe del tuo sorriso, che vorrebbe solo comunicargli: “dai, ti puoi fermare, sei splendido anche senza tutte queste moine, sei unico anche se non te ne porti a letto una ogni sera, sei figo anche se non mi emozioni poi cosi tanto”.

Ci sono poi i Trombadores del weekend, spesso in libera uscita da relazioni stanche che sono capaci di dirti che non hanno mai conosciuto una tipa splendida come te e che amano la loro donna alla follia nella stessa frase e senza intervallo alcuno.

Ci sono quelli che ti devono riempire di bugie per forza sempre e comunque, anche se tu neanche gli hai ancora chiesto come si chiamano . E neanche glie lo chiederai.

Ci sono i Quanto so figo, quelli la cui migliore presentazione,  dopo neanche 27 secondi di conversazione “  Siamo grandi, tu mi piaci, io sono uomo, sei donna, andiamo a casa mia.“

C’è anche chi ti dice “ andiamo a casa tua”, ma a quelli veramente, lo sguardo timido non riesco proprio a farlo ed esplodo puntualmente in una fragorosa risata senza neanche lo scrupolo che si sentano un po’ cretini.

Anche perché i ragazzi quasi mai si sentono cretini.

Sarà, io mi ci sento spesso:  mi vedo buffa, faccio cose buffe, dico cose parecchio assai buffissime, ma raramente direi cose così cretine: “A casa mia? T’ho visto mezzo nanosecondo, nun me ricordo manco come te chiami e non so manco se me lo hai detto, e tu mi chiedi di venire “ A casa mia”?

E ce ne sono tanti altri ancora.

Ieri un ragazzo mi ha chiesto “ Non hai paura di rimanere sola?”.

No. Non ho paura, avrei voluto aggiungere anche che la mia buffezza già da sola basta e avanza, di uomini buffi a farmi compagnia per poche ore ne faccio volentieri a meno.

Intendiamoci, la solitudine non è bella, quasi mai.

Intendiamoci, se non sono troppo buffi, magari anche la compagnia di poche ore può diventare una situazione piacevole. Anche senza conoscersi, si può dare valore all’essere umano che ti ha scaldato una notte, con passione, o tenerezza, o tante risate. Si, si può e credo si debba ringraziarlo, quantomeno omaggiandolo con un bel ricordo da portarti dentro, e, certamente, un sorriso.

Emozioni. Sembra che siamo rimasti in pochi a sapere cosa siano, quale potenza creativa, quale forza primordiale riescano a sprigionare.

Emozioni:  queste sconosciute, così tanto confuse con l’ eccitazione ( e non parlo di quella sessuale), il desiderio e mille altre.

Mi chiedo, quanto tutta questa gente non sappia di perdersi barattando la propria umanità  per la pochezza di una tristissima e squallida notte di sesso.

Io per fare l’amore mi devo emozionare. Per fare sesso mi devo emozionare. Io non sono una bicicletta, non è che “giri le ruote e pedalo.”

Emozioni, così rare che si ha paura, non solo davanti alle proprie, anche davanti all’emozione dell’altro.

Impauriti, confondono la tua emozione con una fragilità, una debolezza, se non anche per una forma di violenza, quasi pensassero che attraverso questa, potessi derubar loro l’anima.

Ingenua quest’ orda di mediocri,  brancolante in un mondo così spento, così banale, così uguale a se stesso.

Io sono emozionabile.

Io mi emoziono e non mi importa che sia per un una notte con un tizio qualunque che mi ha fatto tanto ridere, per una poesia, per una musica sensualissima, per un lettera inaspettata.

Non c’è aspettativa nella mia emozione. C’è solo una potente meraviglia.

Io mi emoziono e non ho bisogno che l’altro faccia altrettanto per sentire improvvisamente e contemporaneamente tutta la bellezza e la buffezza del mondo.

Io mi emoziono e basta.

Non ho paura di mostrare la mia tenerezza, fosse anche per una notte soltanto e poi mai più.

E no, non ho paura di rimanere sola perché so, che fin quando sarò in grado di sentire con questa intensità , di emozionarmi e di vivere con pienezza tutta la sorpresa di questa vita strampalata che è la mia, di sentire la magia e di crearla, sarò sempre in splendida compagnia. Ben più splendida di un fidanzato tristemente borghese, di un marito annoiato, di notti random con tizi davvero improbabili, di ginnastica erotica per stabilire il record di prodezze di Tantra.

No, non ho paura: non ho paura perché voglio una vita straordinaria, amori straordinari, passioni straordinarie, e non mi accontenterò di niente di meno.

Niente di meno.

Perché me lo merito. 

Perché ce lo meritiamo tutti.

Ero arrivata li con un’amica stasera, era bellissima: si meritava una bellissima serata e l’ha avuta.

Indossavo il mio buffo sorriso stasera, era verissimo.

E si, magari “sola”, ma io stasera, non so come spiegarvelo, ma ero proprio, davvero, sinceramente ed onestamente felice.

Non rileggo, non correggo ( avrò scritto la parola emozione un numero improbabile di volte), ma perdonate, è ormai giunta l’alba da un pò, vado ad immergere, sorridente, la testa nel mio buffissimo cuscino, che stasera, ha assunto una vaga e strampalata forma di cuore.

Uno scatto da conservare.

Una di quelle giornate in cui il cervello è un frullatore, quando hai bisogno alla fine di mettere insieme una serie di pensieri scollegati, arruffati, in completa entropia. Ti pesi la vita e realizzi che è caotica si, ma in fondo leggera, come piace a te.

Nonostante tutto. Nonostante il mondo fuori che fai ancora così tanta fatica a capire ma davanti al quale, non ti arrendi. Nonostante una famiglia sgretolata, nonostante la lontananza dai tuoi affetti per anni, in paesi stranieri, nonostante la durezza del percorso per studiare, laurearti, per mantenerti. Nonostante quando te ne andasti via di casa a 18 anni, tutti ti dicessero che da sola non ce l’avresti fatta, nonostante tu abbia passato anni ad accudire una persona affinché non si disintegrasse, mettendo da parte un po’ te stessa, nonostante la morte di tuo padre.

I miei più cari amici, hanno sempre dimostrato un’affettuosa preoccupazione per le mie scelte così fuori da schemi logici comuni, e mai a nulla è servito cercare di tranquillizzarli. Gli amici, quelli con cui hai un legame profondo, tutto sommato, si preoccupano. Alla fine devo dire, si sono sempre arresi davanti alle mie sgangherate, metodiche convinzioni. Di questo li ringrazio, perché loro lo sanno, quanto io sia lenta dentro, e sanno anche bene quanta tenacia ci sia  quando decido che la strada,  anche se “ la meno percorsa”, la percorrerò tutta d’un fiato.

Ci volessero anni.

Ci volesse una dose massiccia di dolore. Non credo serva a nulla esplorare ciò che già si conosce.

Io non ho paura.

Ed ecco qui, che ancora mi avventuro nel mondo, in modo un po’ impacciato, con l’unico bagaglio che ho, una manciata di sorrisi. Che si, è anche vero, ogni tanto te lo perdi, il bagaglio, ma accade, nei lunghi viaggi. E’ un bagaglio leggero. Trovi sempre qualcuno pronto a rendertene un altro per rimetterti in viaggio.

Mi è sempre piaciuto viaggiare in autostop. Ed accadono cose stranissime, anche buffe, su questa strada piena di curve. Conosci persone così simili a te, persone così diverse. Conosci musica che non pensavi potesse mai essere scritta, o anche solo immaginata, tanto è bella; forme d’arte dell’anima che puoi solo stare ad ammirare in silenzio e ad occhi spalancati, tanto tolgono il fiato. Trovi una bellezza smisurata, sentimenti nobilissimi, ma anche la miseria, la grettezza, l’incomprensione, la distanza.

Eppure quando viaggi le misure che ti definiscono la vita sono assai più misteriose degli schemi in cui più o meno ognuno di noi finisce per costringersi, pur odiando le definizioni. Quando stai fermo, per esempio, il cinismo, la noncuranza, le bugie, l’oltraggio del cuore, spesso feriscono. Quando esplori e sei in cammino, semplicemente, alle emozioni tue e degli altri,  fai fotografie. Rimangono, rimangono si, sono vere, perché tu li c’eri. Tuttavia non le temi, e piuttosto che evitarle, le cerchi, perché quello scatto, proprio ti manca, proprio quello li.

..E vuoi davvero fotografarli gli occhi di quella persona così ammaccata, dolorante e ferita, perché il tuo fine è esplorare per aggiungere un altro scatto a quell’album di consapevolezza che custodisci dentro. E vuoi davvero fotografare i tuoi occhi, quando la bellezza e il dolore, indifferentemente, li schiudono di lacrime.

Un altro scatto. Scatto dopo scatto. Sperando che alla fine di questo viaggio, quando sarai costretto a fermarti, l’album ti svelerà la soluzione o la non esistenza della soluzione.. Ma ne sei certa, a qualcosa quel’album servirà. Se non altro per darlo a tuo padre, un grande fotografo che solo da poco si era messo in viaggio, dopo una vita passata a fotografare con estrema bravura, ma immobile, le stesse cose, le stesse emozioni.

Ecco che in questo viaggio, tendi la mano a sconosciuti, per ringraziarli di quel breve passaggio in autostop, apri il tuo piccolo bagaglio, e con la mano cicciottella che è la mia, prendi uno di quei sorrisi, e glie lo offri, sperando accettino questo umile ma sincero contributo, quantomeno alla benzina. E accade spesso che qualcuno il sorriso te lo tiri dietro, come anche il contrario, che lo indossino subito e che con aria leggera, ti salutino con la mano mentre scendi dalla macchina.

Mi piace parlare con le persone, mi è sempre piaciuto. Sono una gran chiacchierona. Se trovassi qualcuno che avesse la mia stessa voglia di parlare passerei giorni e notti intere a colorare le parole, insieme, come un quadro a due mani. Fino a stramazzare per sfinimento da deprivazione di sonno. Si, mi piace. E succede. Si succede. Insomma,  a dirla tutta passano gli anni e succede sempre più raramente, nonostante il mio divano sia sempre un generosissimo ospite di avventori della vita. Le persone che incontri sono un po’ più dure di quando hai iniziato il viaggio tanti anni fa.

La vita lo fa: se non stai attento, ti indurisce.. E si parla sempre di meno, per sfiducia forse, per paura, per puro e semplice disinteresse all’altro credo. Piuttosto, l’altro, lo si preferisce inventarlo, inventarsi i suoi pensieri, virtualizzarlo, così che l’immagine riflessa delle cose che abbiamo rimanga uguale a se stessa e non scuota, né porti scompiglio all’immagine che abbiamo di noi stessi e degli altri.  Poi con la più recente introduzione del parallelo mondo virtuale che ci ha un po’ tutti catalizzati e haimè, me compresa, galvanizzati, le cose vanno anche peggio. Il fatto è che nonostante la mia incredibile quanto folle apertura al mondo circostante, la mia introversione spesso mi impedisce uno scambio generoso e sincero di pensieri con l’automobilista di turno. Mi limito a fare uno scatto.  Come dire, senza permesso, non parlo. Sono cresciuta cosi, con questa forma di educazione alla non invadenza dei pensieri. Una forma di gentilezza, di pudore.

Mi chiedevo oggi se vita abbia indurito così tanto anche me e credo che sebbene abbia lasciato parecchie, e talvolta profonde cicatrici, in fondo, ha voluto farmi questo regalo, questo bagaglio, questo gruzzolo infinito di sorrisi che mi rende ancora capace di provare tenerezza, belle emozioni e amore.

Amore si. Forse l’emozione alla quale fino ad ora io sia riuscita a fare meno scatti per il grande album.  Ci sto lavorando. Perché è assai difficile fare una fotografia all’amore. E’ cosi tanto diverso per tutti. E’ anche così raro. Io me la sono fatta un’idea, ma forse ho davvero troppi pochi scatti ed il viaggio è ancora tanto lungo e temo accidentato. Ho una manciata di foto che mi raccontano l’amore mio e degli altri, così variegate da non riuscire a venirne a capo.

“Io non conosco l’amore, se si affacciasse non lo riconoscerei. Per conoscerlo dovrei prendere una bella sbornia.”

Ecco, forse, la ragione dei miei due bicchieri di vino, offertimi dall’oste di turno. Credo l’amore si avvicini molto ad una forma di cura, ma anche alla volontà, la volontà di sostenersi.

L’amore per me è un mulo: Un “Mulo” si.

Wikipedia: “costituzione assai forte e robusta, rusticità, la resistenza alle malattie, l’adattabilità ad ambienti sfavorevoli”. La caparbietà” del fino alla fine. Qualunque sia il percorso, accidentato o no. E quando sei stanco, il mulo, ti sostiene. Qualunque sia il peso che ha sulla schiena, qualunque sia il peso della tua vita. Fino alla fine.

Io cerco di viaggiare leggera, così che se mai un mulo che conoscesse il mio nome passasse di qui per farsi fare una fotografia, non avrebbe da sostenere troppo, e chissà, il viaggio sarebbe meno faticoso. Si potrebbe parlare più di sogni, piuttosto che lamentarsi, raccontarsi cose divertenti, ridere, piuttosto che asciugarsi il sudore ad ogni passo. Chissà, magari il viaggio sarebbe un po’ più lungo, e quando ti diverti, il tempo comunque passa in fretta, ed è sempre troppo poco.

C’è che ai muli oggi giorno si preferiscono i cavalli, più belli, indomabili, seducenti, delicati, attraenti, fieri. L’ umile ma resistente ed altrettanto affettuoso mulo non se lo fila nessuno. Semplicemente lo sguardo tende a posarsi su forme esteticamente idealizzate, piuttosto che sulla semplicità del quotidiano, di chi ti tende una mano.  Pare sia umano, dicono, ma io questa serie di scatti ancora non l’ ho completata, quindi non citatemi. Per me, tutto il resto è desiderio, senza nulla voler togliere a quest’altra bellissima e complessa emozione (di questa ho tantissimi scatti, è parecchio comune), indi per cui, non interessante ai fini della di cui sopra solitaria e del tutto speculativa discussione.

Tutto questo per ringraziare i miei amici, i miei affetti, più o meno consolidati, vicini e lontani, per dir loro che ho un album pieno di loro foto nel mio cuore, di stare tranquilli, perché cercherò sempre, anche solo con la mia reflex interiore, di collezionare questi incredibili momenti che ho avuto la fortuna di condividere con loro. Un piccolo tesoro indelebile che semmai dovesse loro servire, custodirà tutti i loro sorrisi, insieme ai miei.

Mio fratello. Gibbo. Valentina, Giorgia, ManuManu, Sandra, Ilaria, Angela. Lorenzo. Tyson. Alessio, Eugenio, Marco, Stefano, Paolo, Luciano. Gaetano ed i Pirati. Daniele e il Tetto tutto. Lella e Raf, Valerio, Giamba, Poppy e Mina.

Simon, Phil, Diego, Ian, Paul, Edoardo. Emiliano e anche quello stronzo di Pippo. Matteo,  Luciano, Gabriellone. Marco, Mario, Viola, Federico, Alex. Virginia, Nandosan, Guido Jedi Spega, Papero, Mara, Il Grinch e questo cesso di WordPress.

Immagine

A voi, ed a tutti quelli che vorranno uno scatto del cuore da conservare, un passaggio sul mulo, un sorriso.  

Lievità

Ho ritrovato tra i vari appunti e bozze di cose random scritte, poesie e blog, questa lettera.

Per ricordarmi chi sono, che so e quanto so sentire. 

La storia poi non è finita con la dolcezza che speravo, piuttosto con una tempesta, ma i ricordi delle esperienze, per quanto fastidiose o più o meno dolorose che siano, non andrebbero mai cancellati. Neanche le tempeste. Soprattutto le tempeste.

La memoria ti aiuta a ricordare da dove sei partita e chi sei diventata.
La memoria di aiuta a capire meglio questo mondo strampalato, a navigare nel mare quando è in burrasca e quando è mite, a ricordarti che la magia non è mai quella dell’altro, ma la tua, sempre.

Io non te lo so spiegare il dolore che provo. 

“Se quando mi hai fatto quella sorpresa io avessi avuto da fare, un impegno?”
Eppure ricordavo che mi avessi scritto che nessuno aveva fatto un gesto tanto bello per te. 
Che motivo c’era di rimarcare, mesi dopo: “ Se quando mi hai fatto quella sorpresa io avessi avuto da fare, un impegno?”
Non ho mai avuto quindici anni. 
Certo non li ho oggi. 

Non era mai stato importante il risultato, la cosa importante era fare la magia. 
Te la sei portata via. 
Mi hai portato via forse il più bel ricordo che avessi di te, di noi. 
Semplicemente, te la sei portata via. 
Quando ti conobbi scrissi una cosa per te, che forse venne fuori come una sorta di dolorosa poesia. 
Era bella, faceva male ma era bella, mi dicesti. 

“La poesia mi fa schifo” mi dicesti una notte. Lo hai detto, anche se mi dici di non averlo mai fatto. 
Perché ti faccio credere di ricordare poco, pur condannata a ricordare ogni piccolo dettaglio, e ciò che mi ferisce, non lo dimentico.
E non mi ferisce perché non ti piace la poesia, ma perché in tanto di quello che dicevi di amare di me, c’era poesia. 

Te la sei portata via a Pasquetta, quando sono diventata invisibile.
Te la sei portata via quando stavamo per fare l’amore, e mi hai parlato di un’altra.
Quando per gioco ti chiesi “Dimmi che sono la donna più bella del mondo”. “ Ma non sei la donna più bella del mondo, perché dovrei mentire”.
Quando mi dicesti “Se mi tocchi ancora ti prendo a schiaffi”.
Quando con sufficienza mi rispondesti che Che l’amore sia una scelta è una frase retorica.
Con le tue subdole squalifiche che ho finto di non vedere, ma le sentivo eccome. Ti ho lasciato giocare con me perché volevo vederti, vedere chi sei realmente, venire a prenderti, tenderti la mano in nome del ricordo di quel bambino spaventato che avevo intravisto e sentito quando ci siamo conosciuti.

Te la sei portata via quando hai dimenticato chi sono. Chi eravamo insieme, sul quel divano, abbracciati, annodati, sospesi.
Quando hai smesso di ascoltarmi.
Quando mi hai fatto sentire come una tra tanti altri miliardi di donne sul pianeta.
Quando hai scelto di ferirmi, di prenderti gioco di me per dimostrare il tuo valore, la tua grandezza.
Una grandezza in cui neanche tu credi.

Lascio ad altri la scelta che oggi, non riesco più a fare. 

Eppure una volta ti scelsi.
Scelsi di restare, pur sapendo che non avrei dovuto.
Ti scelsi perché eri diverso. Ti sentivo diverso, o meglio, ti immaginavo diverso.
Non ti scelsi perché hai un bel corpo, grandi occhi profondi e un bel viso divertente.

Ti scelsi perché pensavo che il tuo cuore fosse pieno di magia, di tenerezza, al di la di tutto il resto.
Oggi so, che nel tuo cuore c’è una rabbia sorda e cieca che è il nulla, una bottiglia vuota chiusa ermeticamente dove vorresti far entrare il mondo, ma non ci riesci.
Di quel vuoto hai il terrore e quella bottiglia non la sai aprire.
Ti scelsi per la magia che provavo quando mi eri accanto, ma ho sempre saputo, che in fondo era la mia magia.

E ti scelsi contro tutto. 
A dispetto di chi mi diceva “Ma si divertiti, finché dura, perché non durerà”. 
Ti scelsi nonostante tutto e a dispetto di tutti. 
Non è mai stata una scelta facile, ma scelsi te. 
Ti scelsi perché sognavo una storia pieni di baci sulla spiaggia, davanti al mare, mentre mi dicevi: “ Sei la donna più bella del mondo”. 
Ti scelsi perché speravo capissi quanta emozione ci fosse dentro le mie stupide poesie o il mio stupido blog e avrei voluto che ne facessi parte. 
Ti scelsi forse perché Istanbul è un luogo pieno di magia, e quella magia volle che scegliessi te. 
Nonostante tutto. 
Scelsi te, nonostante me.
Nonostante avrei voluto scappare, partire, sparire. 
Non hai mai capito veramente cosa volessi direi quando affermavo: “L’amore è una scelta”. 
Non hai mai capito che ti stavo urlando dentro “Ho scelto te, nonostante te”. 
Nonostante io sappia chi sei e veda quel dolore che hai dentro che neanche tu sai riconoscere. 

Quella scelta per te non ha mai avuto valore, sebbene per me pesasse come un macigno. 
Era già tutto previsto in fondo. 
Eppure scelsi comunque te. 
E ti scelgo oggi pur decidendo di non assecondare il tuo vuoto, la tua follia, piuttosto, di assecondare la mia. 

Così prenoto il nostro primo e ultimo viaggio insieme, così attendo che il nostro sia un addio dolce, perché di te, voglio ricordare la dolcezza che mi fatto battere forte il cuore, tanto tempo fa; voglio ricordare di te come ti sentivo.

E pur sapendo che anche stavolta mi ferirai, mi deluderai, voglio regalarmi un ultimo ballo, un ultimo bicchiere, di te, voglio regalarmi un bel ricordo. 

Ti auguro qualcuno che riesca a scegliere te, a sceglierti come ho fatto io. 
Ti auguro qualcuno che non abbia bisogno di magia. 
Ti auguro di guarire quel vuoto che hai dentro, di curare quelle ferite che non sai neanche di avere. 
Perché un giorno capirai che tutte le emozioni superficiali di cui ti nutri, non riempiranno quel buco nero che hai dentro. 

Perché un giorno avrai bisogno di amore, quello vero, e intorno a te ci sarà solo deserto, il deserto che avrai creato tu stesso attorno a te, con le tue stesse mani. 
E nonostante tu abbia smesso di sentirmi, di vedermi, io sono ancora quella donna che tu hai dimenticato e di cui ti sei nutrito, non smetterò mai di esserlo, né per te, né per nessun altro. 
E se non puoi darmi la magia, almeno non ti permetterò di portarmela via. 
Mi hai perso tanto tempo fa e non te ne sei neanche accorto. 

Cosi resto, resto ancora un pò, un’ultima carezza. Un ultimo bacio. Un ultimo viaggio. Un ultimo ricordo. 

Roma, 9 maggio

Riflessioni sul narcisismo patologico e le sue conseguenze: un’analisi fatta da un narcisista patologico in terapia.

Sperando possano aiutare le tante persone che lottano quotidianamente con narcisisti e narcisismo. Le dipendenti affettive, le persone fragili, quelle più forti.

Stanotte portami al mare

Stanotte portami al mare.
Davanti ad un forno che odora di pane. Davanti ad un giardino che odora di casa.
Portami a vedere dove sei nato, dove andavi a scuola, dove hai fatto l’amore per la prima volta, dove hai capito cosa volevi diventare, o dove ti sei perso per sempre.
Portami nel quartiere dove sei cresciuto, sulla spiaggia dove per la prima volta andasti da solo con gli amici, alla fermata dove aspettavi l’autobus per andare a scuola.
Portami dove hai fatto l’esame di guida per la tua patente.
Portami a vedere dove giocavi a pallone, dove ti rifugiavi, dove compravi il gelato d’estate.
Portami sull’astronave che quella notte di tanti anni fa hai immaginato per te.
Portami a quel concerto che ti ha fatto piangere.
Portami dove lei ti ha lasciato.
Portami a fare un lungo e brevissimo viaggio dentro scampoli di te.
Per una notte, una soltanto, voglio camminare su quella luna sbeccata e sentire l’eco di quei passi.
Lontana.
Sarò discreta. Sarò silenziosa. Sarò invisibile.
Non aver paura.
Stanotte ti terrò con tutte le forze.
Per tutta la notte che posso.
Portami li, stanotte.
Portami li.

Narciso

Un pò ammaccata, ma sono ancora in piedi.

Il tempo ha fatto il suo e finalmente riesco a parlarne.

Come dice un mio caro amico, io non mi spezzo mai. Stavolta devo ammettere ci ero andata molto vicino, eppure sono qui, di nuovo, a scrivere, come ogni volta che la vita mi insegna qualcosa su me stessa e su questo mondo così difficile da decifrare.

Ho amato un ragazzo molto più giovane di me. Una relazione difficile di suo, ma quel ragazzo aveva qualcosa di incredibilmente speciale, una rara tenerezza e una dolcezza che riusciva a far dimenticare tutte le mie logiche paure.

Era un ragazzo, eppure di lui io vedevo il bambino ferito che si nascondeva dietro un cazzone divertente e sempre allegro.

Come in tutte le relazioni le cose cambiano.

Lui è iniziato a cambiare piano piano, e se è vero che non ci sono colpe nello smettere di amare qualcuno, è anche vero che almeno in nome dell’amore che si è provato, di quello che si è ricevuto, si dovrebbe andar via da una relazione con dignità, soprattutto prendendosi cura della dignità dell’altro, con rispetto.

Non è stato così. Arroganza, squalifica, violenza verbale e una sportellata sono stati il coronamento di una storia che per quanto improbabile, era iniziata con le migliori aspettative.

Solo pochi giorni prima mi aveva permesso di vederlo in tutta la sua fragilità. Quella notte ci eravamo amati con una rara intensità. Mi aveva permesso di vederlo.

In realtà più che permesso, costretto: lo avevo messo con le spalle al muro e lui non aveva potuto fare altro che mostrasi.

Poi, di punto in bianco, solo pochi giorni dopo, senza un apparente motivo, è diventato scostante, freddo, arrogante. Lo attribuivo al fatto che non fosse per lui un buon periodo, ma ero convinta così tanto dell’amore che diceva di provare per me, che ero pronta ad accettare anche i suoi cambiamenti di umore. Ci siamo allontanati solo per pochi giorni e quando ci siamo rivisti era un uomo diverso. Incattivito, arrabbiato, crudele.

“Non so più cosa provo per te”. Un pugno sul cuore. Mille pugni nell’anima.

Ero distrutta, confusa, attonita.

Così, senza un motivo, o almeno senza darmene uno che avesse un senso.

Eravamo in vacanza insieme quando è successo tutto e durante una cena, non contento della ferita che aveva aperto nel mio cuore, aveva avuto anche il coraggio di fare commenti sul culo di una cameriera, frasi del tipo “Il perizoma dovrebbe essere illegale”. Così, una pugnalata gratis su un’anima già sanguinante. Non ce n’era davvero bisogno.

Un commento stupido, che in un altro momento sarebbe stato quasi divertente, ma farlo davanti ad una persona che hai appena ferito dimostra una mancanza di empatia e tutto il disprezzo e la noncuranza che si ha per i sentimenti dell’altro.

La vacanza è finita un pò fingendo, raccontandoci la bugia che una volta a Roma, magari ci sarebbe stato tempo per chiarire, per riflettere, magari per non buttare tutto nel cesso o magari si.

A quella bugia in fondo non credevo neanche io.

Dopo tutto quello che era successo, non ero più in grado di rimarginare la ferita.

Ho passato giorni, settimane, mesi, a rimuginare, a odiarlo anche.

Perché.

Niente aveva senso.

Poi ho capito.

C’è stato un momento, mentre rientravo a casa, con una lacrima sul viso e mille nel cuore in cui ho recitato un daimoku, un mantra buddista che ha accompagnato per quasi tutta la mia vita.

“NAM MYOHO RENGHE KYO, aiutami a non odiare quello stronzo”.

Ho visto all’improvviso quella sua ferita narcisista che lo ha sempre braccato.

Sono riuscita a toccarla con il mio cuore.

Lui non sa amare. Vorrebbe ma non lo sa fare. Si disprezza in fondo, ma nessuno deve saperlo, nessuno deve vederlo. Nessuno.

Pretende, finge di essere amabile, per conquistare: la sua conquista gratifica il suo ego ferito dal disprezzo che lui prova per se stesso.

E continuerà, continuerà così all’infinito perché non è capace della vicinanza che l’amore richiede.

Non sa amare e non sarà mai amato veramente a meno che non impari ad accettarsi, ad abbracciare le sue imperfezioni, a curare la sua ferita e a farsi abbracciare. Dovrà imparare a dare.

Non sono cose che può insegnare una donna, certo non sono cose che avrei potuto insegnare io.

Detestava il solo fatto di essersi messo a nudo, odiava il fatto di averlo fatto con me che in fondo non ero altro che un’altra delle sue relazioni destinate alla stessa parabola.

Non voleva essere visto.

All’improvviso ho provato un’incredibile tristezza: non era più la mia, ma la sua.

Doveva odiarmi, non poteva far altro. Ero uno specchio per lui. Sapeva che guardandolo, ora che si era messo a nudo, io avrei visto proprio tutto ciò che disprezzava.

Doveva mortificarmi, doveva distruggermi in nome del disprezzo che lui provava per se stesso.

Lui neanche lo sa. Non credo sia in grado di analizzare se stesso con questa lucidità, non perché non sia intelligente, lo è molto, non ha mai avuto i mezzi.

Così magari ha preso la prima scusa, una ragazza carina che gli girava intorno, la noia di una relazione che ha perso di senso perché non c’è più bisogno di conquista, un vecchio amore, una delle mie tante imperfezioni, per giustificare se stesso e tutto lo schifo di cui era stato capace.

Oggi, dopo tanto tempo, sono tornata a recitare Daimoku per un’ora vicino casa mia. Avevo dimenticato la potenza del daimoku.

Ora lo so.

Non lo odio. Non lo odio più. Non c’è più rabbia.

Nonostante tutto quello che mi ha fatto, il dolore, l’umiliazione, lo squallore, e pur avendo io deciso di andare via da una relazione tossica, provo ancora tenerezza per lui.

So che in fondo, un pò, mi ha voluto bene davvero. Glie l’ho letto negli occhi la sera in cui si è messo a nudo. Ma ad amare veramente, quello no, di quello non sarà capace fin quando non deciderà di amare se stesso, di lasciare andare il bambino ferito che cerca solo gratificazioni e diventerà l’adulto che accetterà che la vita è imperfetta, che lo è lui e come lo siamo in fondo tutti noi. Che si può essere amati nonostante tutto, nonostante noi. Metterà sempre prima di tutto se stesso, il suo egoismo, i suoi bisogni. Fuggirà sempre dalle sue responsabilità, dagli obblighi dell’amore, le scomodità dell’amore e le assolutezze che la l’amore richiede.

Che pena.

É immensamente triste sapere che la fuori ci sono persone che non sanno sentire, che non sanno amare e che mai sapranno quanto l’amore può curare.

Quanto l’amore sia in grado di accogliere.

L’amore, quello vero, non cerca la bellezza, ma l’abiezione, l’oscenità, la bruttezza, i difetti, i nei, il caos.

Perché in fondo in quel caos c’è la vera natura del cuore, la vera natura del mondo e solo accettandolo si può trovare il senso della nostra breve esistenza.

Una parte di me, quella emotiva, avrebbe voluto dirgli tutto questo; un’altra, quella razionale, sente che non capirebbe, che non accetterebbe le mie conclusioni e che sarebbe un’inutile conversazione con un sordomuto.

Così nel mio cuore oggi non c’è più rabbia, ma una nuova, piccola, seppur dolorosa, consapevolezza.

Ho imparato qualcosa sul mondo, sulle persone e la fragilità, ho imparato qualcosa di me.

Ho dato un senso ad un piccolo pezzettino di mondo altrimenti inintelligibile, anche se il prezzo da pagare è stato altissimo.

Ma nulla avviene per caso.

E c’è ancora amore nel mio cuore: la ferite lasciano cicatrici, ma in fondo le sento come tatuaggi che raccontano la mia storia e quelle degli altri.

Con tutto il cuore mi auguro che ce la faccia, mi auguro che per lui ci sia speranza, perché tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero provare l’amore vero, incondizionato e sentire quel calore che scioglie e che da un senso a tutto quel ghiaccio che ci tiene imprigionati e non ci fa volare.

Che sia per una notte soltanto, per pochi mesi o per tutta la vita.

Non possiedo la sua verità, e forse nulla di quello che ho scritto ha veramente significato, ma ho la mia. Gli ho voluto molto bene, nonostante le bugie che raccontava a me e a se stesso, questo non posso cancellarlo. Ma non c’è posto per l’inferno nel mio cuore.

Spero che tutto il bene che ancora mi porto dentro per lui, per quel bambino lacerato con cui in fondo avrei voluto giocare ancora un pò, anche senza più sentirsi, senza più parlarsi, senza più conoscersi né riconoscersi, arrivi in qualche modo al suo cuore lontano ormai anni luce e lo scaldi, per aiutarlo a diventare quello splendido adulto di cui ha tutto il potenziale.

Io devo andare.

Non posso restare e non voglio farlo ma so che una parte di me, rimarrà sempre li, in quel giardino sgangherato pieno di polvere, fango e relitti a cantare con lui canzoni a squarciagola, a fare discorsi strampalati eppure così pieni di senso dopo una canna, a ballare fino al mattino.

Nonostante tutto, è stato un bel viaggio.

A fare l’amore dove l’unica verità la gridavano i nostri corpi, le cui pelli erano capaci di sussurrare tutte le canzoni d’amore del mondo.

Essere romantici

L’amore è terribile. E’ doloroso, è spaventoso. 

Ti fa dubitare di te stesso, ti fa giudicare te stesso. 

Fa mettere una distanza tra te e le altre persone nella tua vita. 

Ti rende egoista, ti rende a volte spaventoso, ossessionato. 

Ti rende crudele e ti fa fare o dire cose che non avresti mai pensato di poter dire. 

E’ tutto ciò che più desideriamo ma e’ l’inferno quando ce l’hai. 

Cosi nessuna sorpresa se è qualcosa che non vogliamo fare da soli. 

Mi hanno insegnato che se sei nato con amore, allora, la vita è scegliere il posto giusto dove metterlo. 

Le persone parlano tanto d’amore, che l’amore è giusto  perché’ quando va bene è facile. 

Ma non sono convinta sia corretto. 

Serve forza per sapere cosa è giusto.

E l’amore, non è qualcosa che le persone deboli sanno dare. 

Essere romantici richiede un’enorme dose di speranza. 

Credo che significhi che quando trovi qualcuno di cui ti innamori, ecco, sa di speranza.