Mi vedi, Florinda?

Di tanto in tanto mi rabbuio per le chat sciatte e insulse con superuomini di turno. Poi ci sono notti in cui riesci a comunicare, a sentire, ad immaginare e non sai neanche come ma quel veleno, quel piccolo dolore, quel maledetto punto interrogativo, lo tiri fuori. Qualcuno che sa sentire, qualcuno che sa ascoltare. E fai pace infine ed inaspettatamente, con un pezzo di mondo.

“A: Hai presente quella sensazione che ti da lo champagne buono il primo mezzo bicchiere?

E: Ni. Raramente ho bevuto champagne. Una questione di sopravvivenza.

A: Ma quanti gamberi ci sono a Mazara e i pistacchi di Bronte poi?

E: Secondo me tantissimi. Puoi raccogliere gamberi da splendidi alberi e pescare ottimi pistacchi in Sicilia, è una terra generosa.

A: Si dice così?

E: Si.

A: ops…e ora…Chi e’ sta zoccola che mi scrive nell’altra chat? Ma tu non sei gelosa.

E: Già.

A: E tu in tutto questo dove sei, corporea ed evanescente, tu con le tue preoccupazioni, le tue aspirazioni, la tua vagina glicemica ed intelligente, i tuoi rodimenti di culo?

E: Sto studiando per esorcizzare le preoccupazioni e i rodimenti di culo. Ogni tanto ti leggo e piango.

A: Chi siamo?

E: Forse il racconto che ci commuove.

A: Mi sai dire veramente chi siamo e sapresti dirmelo davanti ad un bel piatto di pasta alle cozze e vongole?

E: No, ma se servisse al tuo secondo romanzo potrei fingere di saperlo.

A: So du kili in più, che faccio, lascio, Signo’?

E: Lasci pure.

A: Tantissime cose urgono, tutte un po’ retoriche e tardo romantiche, come chi posta le foto dei gattini con gli aforismi di fabio volo. O chi posta una papavero ed una farfalla che ti guarda con le ali, suggerimenti intimi e genitali, femminei troppo femminei. E mi sento in colpa perché non riesco a chiudere mille conversazioni con mille donne sole, quando forse dovrei parlare solo con te.

E: …

A: Puntavano i piedi, ma volevano solo essere viste. E tu, mi vedi, Florinda?

E: Uomini, donne, categorie. Necessità di definire, di definirsi. Trovare un posto, il proprio posto, conoscere per capire, capire per conoscersi. Ed infine, emettere un giudizio per siglare con un atto irrevocabile, un testamento identitario, chi siamo, o forse dovrei scrivere, chi abbiamo deciso di essere ai nostri stessi occhi e a quelli degli altri. .

Perché alla fine siamo tante cose ma per qualche motivo, lasciamo che il nostro stesso giudizio ci ritagli, ci mutili, ci amputi.

Ho passato una vita a sezionare e scartare pur di definirmi.

Non so poi quando sia successo, mi sono svegliata una mattina, infelice, imprigionata, delusa ed ho pensato a mio padre. Un uomo arrogante, solitario, geniale, arrabbiato. Un uomo sensibilissimo che per tutta la vita ha cercato rabbiosamente di determinare chi fosse senza veramente riuscire a sentire il suo valore. Un uomo che sono riuscita a “vedere” veramente solo quando se ne è andato via all’improvviso a 59 anni.

Mio padre era tante cose, eppure per la maggior parte della mia vita, ho visto in lui solo una parte dell’uomo che era. Non ho parlato con i miei genitori per la maggior parte della mia vita. Il periodo più lungo, 7 anni. Oggi so che sono stati entrambi, per me, due esemplari straordinari di complessità, forza, umanità e fragilità. Li vedevo come due genitori imperfetti, come una coppia mal assortita, ma era la categoria in cui li avevo io stessa relegati che non mi permetteva di guardarli nella loro interezza e nella loro personalissima, fragilissima bellezza di esseri umani. Imperfetti, eppure così perfetti per me.

Credo di aver accettato in quel momento di essere tante cose. Ho tolto la maschera: quando l’ho fatto, non era rimasto nulla da giudicare, né di me, né di altri. C’ero solo io, con quello che sento, nel bene e nel male, ma decisa a non rientrare più in quella prigione fatta di inutili certezze e comode illusioni.

Sono dolce, sono emotiva, sono sensibile, un angelo.

Sono dura, tagliente, cinica, severa, arrogante, una troia.

Sono. Una parola che usiamo spesso, che uso spesso. Un verbo tanto utile quanto pericoloso. Ci invita urlando a fare una scelta, a scegliere un ruolo.

Si ha paura, in fondo, ad essere tutto. Nel tutto, nelle infinite possibilità, anneghiamo. Non si può esimere “tutto” dal giudizio.

Ti chiedi se scegliere di essere un monaco buddista o un vizioso Jean.

E se la soluzione fosse non scegliere nulla. E se la risposta si rivelasse nello scegliere di essere tutto. E se la serenità si trovasse nell’accettare che possiamo scegliere di essere qualunque cosa ed il suo contrario.

Non vorrei morire pensando a chi sono stata, piuttosto a quanto ho sentito.

Certo, ha un prezzo. La stadera varrà per tutti, ci metterà di fronte esseri umani con la nostra stessa complessità, che non potremo costringere in una categoria, che non potremo definire, a cui non potremo chiedere di essere, ma solo di sentire. Qualcuno ci presenterà sempre il conto, un inesorabile ed inconfutabile giudizio. Quanto siamo disposti a pagare per la nostra libertà, per la nostra interezza?

Mi hai chiesto “ Mi vedi Florinda?”.

Ti rispondo “Vuoi davvero essere visto?”

Pensaci bene. Oppure vuoi che veda solo l’uomo che hai ritagliato per te stesso?

Io non voglio essere vista. Non da questa umanità, da occhi giudicanti, da maschere inconsapevoli e ben ancorate ad inutili punti fermi su un pianeta in costante rotazione, un universo in rapida espansione e danzante nell’entropia.

Non siamo pronti per vedere. L’impellente, inarrestabile desiderio di definire finirebbe per farci a brandelli, per fare l’altro a brandelli. Usiamo l’altro come uno specchio, una bilancia per dirci quanto siamo belli, quanto siamo brutti, per misurarci, per pesarci, ma l’altro, raramente lo vediamo, così presi dall’ urgenza di autodefinirci.

E poi cambiamo. Cambiamo e il cambiamento ci confonde, siamo costretti a ridefinirci, a ricominciare a sezionarci.

Personalmente sono stanca di tutto questo inutile autolesionismo. Voglio imparare ad accogliere, ad abbracciare, ad unire, che sia me stessa o l’altro. Vorremmo tutti essere amati. Forse più di tutto vorremmo che di noi si amasse il bambino che ci portiamo dentro, inascoltato, incompreso, lasciato li in un fazzoletto di cuore a giocare da solo.. ma del bambino dovremmo anche accettare l’intemperanza, la lunaticità, l’insofferenza, la volubilità.

Allora forse la vera domanda non dovrebbe essere “ Mi vedi?” ma piuttosto

“ Vuoi giocare con me, nonostante me?”.

Perché l’universo non avrà pietà di noi.

Immagine di Vladimir Fedotko

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