Datemi signori, il senso del mondo

 

“Prontuario per il brindisi di Capodanno” di Erri De Luca

Bevo a chi è di turno, in treno, in ospedale,

cucina, albergo, radio, fonderia,

in mare, su un aereo, in autostrada,

a chi scavalca questa notte senza un saluto,

bevo alla luna prossima, alla ragazza incinta,

a chi fa una promessa, a chi l’ha mantenuta,

a chi ha pagato il conto, a chi lo sta pagando,

a chi non è invitato in nessun posto,

allo straniero che impara l’italiano,

a chi studia la musica, a chi sa ballare il tango,

a chi si è alzato per cedere il posto,

a chi non si può alzare, a chi arrossisce,

a chi legge Dickens, a chi piange al cinema,

a chi protegge i boschi, a chi spegne un incendio,

a chi ha perduto tutto e ricomincia,

all’astemio che fa uno sforzo di condivisione,

a chi è nessuno per la persona amata,

a chi subisce scherzi e per reazione un giorno sarà eroe,

a chi scorda l’offesa, a chi sorride in fotografia,

a chi va a piedi, a chi sa andare scalzo,

a chi restituisce da quello che ha avuto,

a chi non capisce le barzellette,

all’ultimo insulto che sia l’ultimo,

ai pareggi, alle X della schedina,

a chi fa un passo avanti e così disfa la riga,

a chi vuol farlo e poi non ce la fa,

infine bevo a chi ha diritto a un brindisi stasera

e tra questi non ha trovato il suo.”

 

C’è stato un tempo in cui sul
blog scrivevo solo cose di una certa leggerezza.

Questo tempo sembra essere finito
da un po’.

A. sta morendo.

Lo so da tempo, so che era
inevitabile, ma vederlo spegnersi, vedere spegnersi i suoi occhi e la voglia di
lottare fa un male che disintegra anche la più solida delle pietre.

Anche una granitica come me.

Il 2009 è stato un anno,
forse uno dei pochi che vorrei cancellare dai calendari. E’ finito e ad
attendermi ce n’è un altro ancora molto duro, a quanto pare.

Io almeno, credo, salvo
contrattempi, di avere da vivere ancora un po’.

Io almeno posso sperare di
poterlo fare, di svegliarmi anche domani, e domani ancora progettare, vivere.

La vita, già.

Quest’alito così delicato che
ci portiamo dentro, non si sa bene dove e come, ma c’è ed tutto ciò che
abbiamo.

Questo soffio di perfezione
cosmica sta scivolando via da lui. Ed io non posso far altro che stare a
guardare, lentamente, giorno dopo giorno.

E mi chiedo perché la morte
debba essere così meschina.

Perché ci avverte con lunghe
malattie, perché non ci avverte con la morte prematura e improvvisa.

Perché insomma, che bisogno c’è
di morire.

 

Quel padre e quel figlio si
stanno ritrovando qui, nel purgatorio dei morenti.

Era davvero questo ciò di cui
avevano bisogno?

La morte del padre aiuterà il
figlio a far pace con la vita?

 

Riuscirò io così piccina,
così emotiva, ad essere forte per tutti e due quando arriverà il momento di
dirsi addio senza esserselo detto?

Riuscirò a sostenere questo
figlio fragilissimo che dalla vita avrebbe voluto solo l’amore di suo padre?

Riuscirò io a sostenere
questo padre così orgoglioso e così impaurito?

Riuscirò io, proprio io che
sola a casa piango più di quei due ometti messi insieme?

Ieri sono stata con loro,
padre e figlio.

Una strana sensazione di
appartenenza, pur non appartenendo io, a questa famiglia.

Credo che sia per colpa di
quei suoi occhi, che mi ricordano gli occhi di mio padre.

Gli ho sistemato le lenzuola arrotolate, il pigiama,
come a un bimbo, e lui impacciato sembrava vergognarsi ma sorrideva. Quel sorriso
non me lo dimenticherò.

Non posso fare molto contro
questa cazzo di morte, me ne devo fare una ragione. Però non riesco a non fare
tutto ciò che più posso per stare vicino a questi due uomini così piccini, così
maldestri nei loro sentimenti.

Anche loro, in fondo, come il mio papà, fanno fatica a sentire il valore che hanno dentro e non sanno neanche
di possedere.

 

La gemma nel vestito

C’era una volta l’India, un paese lontano lontano, dove le strade erano piene di polvere
e chi era ricco era ricco sul serio e chi era povero era povero veramente e
c’era un uomo che  possedeva solo le vesti che indossava e girava il paese
cercando fortuna ed elemosinando del cibo. Un giorno un uomo, pieno di polvere
e di fatica e tanto povero da non ricordare più il sapore del vino e del cibo,
giunse alla casa di un vecchio amico.

L’amico lo fece accomodare, gli fece stendere le gambe e riposare le membra,
gli fece adagiare le braccia su morbidi cuscini; gli offrì piatti raffinati,
insaporiti e arricchiti dai mille profumi e sapori di tante spezie, specialità
di quel paese lontano. E gli versò del vino che scese nella sua gola come un
nettare divino, come ambra, come un magico liquido celeste. L’uomo povero si
ubriacò e subito si addormentò. L’amico lo guardava dormire, provando pena per
lui; decise di aiutarlo.

Ma in quel mentre giunse, accaldato per la corsa e per l’affanno, un messaggero
del maharajà, che gli riferì che lo si richiedeva per importanti affari in una
città lontana. L’amico, però, prima di andare via si avvicinò all’uomo ubriaco
e addormentato e cucì nella sua veste un gioiello di rara bellezza e forma e di
grande valore, certo che al suo risveglio l’uomo lo avrebbe trovato e che
avrebbe così iniziato una vita diversa, fatta di vesti nuove e cibo e bevande
tutti i giorni e la certezza di poter dormire in un giaciglio comodo e caldo. E
di poter abbracciare, la notte, l’amore; di poter infine eccellere in un campo,
come è dato a ogni uomo e a ogni donna che viva nel benessere. L’uomo però al
suo risveglio non si accorse di nulla: si mise in viaggio per altre regioni del
suo grande paese senza sospettare di essere ricco, con le sue vesti logore, e
come unica proprietà un recipiente di latta.

Giunse in una città e incontrò un bambino magro magro, con gli occhi grandi e
il corpo scheletrico: avrebbe voluto aiutarlo, avrebbe voluto regalargli del
latte, scaldarlo con dei panni caldi, ma non poteva fare niente: si sentiva le
mani vuote e il cuore gonfio di pena. Lo guardò andare via, sulle sue gambine
malferme, mentre lo salutava con i suoi occhi grandi e gentili. Giunse in
un’altra città dove rimase a lungo: in quel paese nessuno dava l’elemosina, non
c’erano monasteri o luoghi di ricovero per i poveri e l’uomo era talmente
debole che non riusciva ad andare via, ad affrontare la strada per trovare un
posto migliore. Si nutriva di bacche ed erba, ma più spesso assaggiava la
polvere della strada. Proprio qui lo incontrò il suo antico amico che gli
disse: «Che cosa assurda, vecchio mio! Come mai ti sei ridotto così per
procurarti da mangiare e vestire?». Gli porse il braccio e lo aiutò ad alzarsi;
lo accompagnò al suo serraglio dove lo attendevano servitori, e cibo fresco e
vesti pulite. Allora, dopo che l’uomo si fu rifocillato, ebbe mangiato a
volontà e bevuto, dopo che si fu lavato e cambiato, l’amico prese la vecchia
veste dell’uomo e gli mostrò, ancora là dove lui stesso l’aveva cucito, il
gioiello di inestimabile valore, di grande purezza e bellezza. «È sempre stato
qui e tu non lo sapevi, amico mio», gli disse. «Eri ricco e lo sei anche
adesso».

L’uomo povero non credeva ai propri occhi: il gioiello riluceva tra le sue mani
e in un attimo vide tutto ciò che avrebbe potuto essere: del cibo caldo per il
bambino dagli occhi grandi e gentili; vesti per tutti i poveri della città;
banchetti sontuosi nei quartieri più poveri; e poi canti, danze, letture,
poesie, tutto ciò che rende la vita più bella quando il cibo e le vesti non
mancano. E lui aveva avuto con sé da tanto tempo questa fonte inesauribile di
benefici senza accorgersene.

«Che stupido sono stato! – esclamò abbracciando l’amico – Ero così abituato
alla mia misera condizione che non cercavo in alcun modo di trasformarla.
Adesso capisco che la ricchezza e la felicità non stanno in un qualche posto
lontano e irraggiungibile ma fanno parte della vita. Basta solo scoprirle».

 

Ora, a dirla tutta, a essere
onesti,  anche io mi sento povera, , in questo
momento della mia vita. Diciamo che sono rimasta con pochi spicci viste le spese del 2009.

Eppure so che posso e che devo andare a trovare quel
gioiello dentro me stessa per nutrire questi due bimbi tenerissimi.

Io sono fortunata. Io ho un
mezzo. Loro nessuno. Nemmeno uno che funzioni male, o funzioni poco.

Nessuno.

Ma io, che devo fare?

Che posso fare?

L’unica cosa che so, è che non posso farlo io per loro e non
posso far smettere di morire le persone.

Brutta cosa crescere, d’un tratto di accorgi che hai perso i
tuoi poteri magici, e non sai quando sia successo.

O forse si.

E so che c’è un senso, lo so, lo sento, ma quale esso sia, porta
con se anche tanto dolore.

Datemi, Signori il senso, il senso del mondo.