L’errore

(L’incredibile performance di un Uomo morto.)

Sei così convinto del mio errore. 

Eppure sai così poco di me. 

Sei così convinto delle mie premeditate inconsce vie di fuga, della mia indisponibilità emotiva, del mio non voler esserci veramente, del mio non voler restare. 

Non posso dissuaderti dalle tue convinzioni, nè persuaderti dall’idea che hai di me. 

Abbiamo parlato spesso di limiti, di emozioni, di sogni e la nostra volontà di perseguirli. Dei nostri fallimenti, di quanto varrebbe la nostra vita se morissimo in questo momento. 

Tuttavia, l’unica cosa che davvero avrebbe potuto darti un indizio, di dove s’insinui veramente l’Errore, non l’hai neanche notata. Eppure ti riguardava, in quale modo. 

Ho ripensato tutto il giorno alla nostra conversazione. E credimi se ti dico, che da qualsiasi parte io lo guardi, quell’errore, quel neo, quell’imperfezione che mi concerne, non ha nulla a che fare con l’essere emotivamente non disponibili. 

Quell’errore, quel neo, quell’imperfezione che mi appartiene è molto più spaventosa. 

Perché dall’indisponibilità emotiva, si può venir fuori: sono momenti, periodi più o meno lunghi dai quali alla fine, seppur con infiniti equilibrismi ed assestamenti, ci si può liberare e ritrovare una rinata disponibilità.

La verità è che io non so giocare. 

Chi mi conosce bene, sa quale potenza creativa siano capaci di sprigionare le mie emozioni, che tu riduci ad una semplice e lapidaria sintesi: “dall’altra parte c’è questa capacità di entusiasmarti mille volte al giorno per questo o quello o questa cosa o quell’altra, meccanismo questo forse un pò infantile, nel senso buono del termine”.

Sono stata una bambina solitaria, un’adolescente interrotta, un’adulta introversa ed impenetrabile, condannata a proteggere tenacemente quella bimba solitaria che mi porto dentro da tutta la vita.

Avrei voluto crescesse, la mia piccola e delicatissima Elisewin, avrei voluto insegnarle a non avere paura, ma la verità è che non si può insegnare il coraggio, quando non ne possiedi. Potresti obbiettare che guardando la mia vita, non si può dire che io non sia stata una donna coraggiosa. Che sia vero o no, ha poca importanza. L’importanza è l’immagine che abbiamo di noi stessi. E di coraggio ne ho da vendere, ma mai se entrano in gioco i veri sentimenti. 

La mia piccola e delicatissima Elisewin, sa che un giorno Adams arriverà. O almeno così le ho fatto credere, senza non più crederci tanto neanche io.

Così, succede che quelle rare volte in cui piccole magie accadono o si compiono nella mia vita, quella bambina si risveglia e mi implora di giocare. Ma lei non sa, quanto sia doloroso perdere. Allora le concedo e la nutro di piccole emozioni, di tramonti, di passeggiate al parco, di musica, di carezze pelose, di dialoghi surreali, di sogni, e perché no, di una semplice partita di calcio allo stadio. Per te, emozioni infantili, per lei, boccate di ossigeno. I bambini sono semplici. I bambini conoscono meglio di noi il valore delle piccole cose.

No, davvero non sa quanto sia doloroso perdere. 

Non lo sa: semplicemente, Io non glie l’ho mai permesso. 

Anni fa, tanti anni fa, ancora tentavo, ancora avrei voluto che imparasse a rialzarsi, ad incassare le disfatte. Poi i fallimenti, le bugie dalle quali non si può scappare, che non danno alcuna possibilità di scelta. L’incredulità della mia innata quanto sofisticata ingenuità, davanti alla bruttezza delle cose, delle persone. Davanti all’anaffettività, alla mancanza di cura.

Non ce l’ho fatta. Invece di insegnarle il coraggio, a rialzarsi, l’ho semplicemente protetta dal dolore. E’ una bambina molto sensibile, lo è da sempre. Ed è anche il mio più grande fallimento: io, che più di tutto, avrei voluto unire, l’ho separata da me e dal resto del mondo, relegandola a giocare da sola, facendole credere che quello fosse l’unico modo possibile. 

Non sarei mai stata una madre riuscita. Non ho saputo esserlo neanche di me stessa. 

Ho lasciato che imparasse a giocare da sola: non conosce la competizione, quella piccolissima me, non conosce la sfida, semplicemente non ha mai imparato a perdere. 

Non glie l’ho mai concesso, sono sempre andata via prima che qualsiasi vera partita sulla scacchiera della vita si giocasse. 

Così quando le cose del mondo mi fanno paura, semplicemente faccio un passo indietro.

Un lungo passo indietro. 

Tanto lungo da diventare irreversibile. 

Razionalissimi sillogismi, perfettamente calzanti, affatto centrati, non fanno altro che confermare le mie ipotesi. 

Ma quando sono sola con me stessa, non posso far altro che constatare quanto negli anni sia stata brava a costruire castelli di razionalissimi alibi. 

Si può uccidere un uomo per vendetta. Si può uccidere un uomo per difesa. 

L’atto è il medesimo, ma è il Kokorozashi, la direzione profonda del nostro cuore che fa la differenza. E’ la vera causa che mettiamo dietro alle azioni, che ci mostra il limite. Il nostro limite.

E per quanto mi sia detta tante volte che non si può inseguire l’amore, che non si può imploralo, che non si può neanche semplicemente chiederlo, so, nel mio mondo adorato e maledetto, che semplicemente, da un certo punto in poi, non ho mai più avuto il coraggio di lottare o di andare a cercarlo. Un sussulto del cuore, un piccolo spavento ed io mi ritiro.

Arbitro di parte di un gioco a cui io stessa non sapevo giocare, ho semplicemente squalificato l’avversario prima che la vera partita si giocasse. 

Questo è l’errore, Massimo. 

Non di non voler restare, di non voler costruire, ma di non saper giocare, o quanto meno, di avere una fottuta paura di farlo.

Il mio più grande limite. 

Il mio più grande fallimento. 

““Elisewin prese tra le mani il volto di quell’uomo e lo baciò. Nelle terre di Carewall, non smetterebbero mai di raccontare questa storia. Se solo la conoscessero non smetterebbero mai. ognuno a modo suo tutti continuerebbero a raccontare di quei due e un’intera notte passata restituirsi la vita l’altro, con le labbra ,con le mani, una ragazzina che non ha visto nulla e un uomo che ha visto troppo uno dentro l’altra ogni palmo di pelle è un viaggio di scoperta di ritorno .nella bocca di Adams a sentire il sapore del mondo sul seno di Elisewin a dimenticarlo nel grembo di quella notte stavolta, nera burrasca, lapilli di schiuma nel buio, onde come cataste franate, rumore, sonore folate furiose di suono e velocità, lanciate sul pelo del mare nei nervi del mondo, oceano mare, colosso che gronda stravolto, sospiri, sospiri nella gola di Elisewin, velluto che vola, sospiri ad ogni passo nuovo in quel mondo che valica monti mai visti e laghi di forme impensabili. Sul ventre di Adams il peso bianco di quella ragazzina che dondola musiche mute, chi l’avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano accarezzando le gambe di una ragazzina si possa correre così veloce e fuggire fuggire da tutto vedere lontano venivano dai più lontani estremi della vita, questo è stupefacente a pensare che mai si sarebbero sfiorati se non attraversando da capo a piedi l’universo e invece nemmeno si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, una cosa di un attimo il primo sguardo e già lo  sapevano questo è meraviglioso. Questo continuerebbero a raccontare per sempre nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai lontani abbastanza per trovarsi lo erano quei due lontani più di chiunque altro e adesso grida la voce di Elisewin per i fiumi di storie che forzano la sua anima e piange Adams sentendole scivolare via quelle storie alla fine… Finalmente finite, forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta riducendo in quei due corpi che si mescolano e nemmeno è amore questa stupefacente ma è mani e pelle e labbra, stupore, sesso, sapore, tristezza forse, perfino tristezza, desiderio, quando lo racconteranno non diranno la parola amore 1000 parole diranno taceranno amore. Tace tutto intorno quando d’improvviso Elisewin sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell’uomo dentro, gli afferra le mani e pensa: morirò. Sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare stringe quell’uomo dentro e afferra le mani e vedi, non morirà.” – Oceano Mare – Baricco

Un uomo che precipita.

Un grattacielo.

Una macchia nel cielo.

Un uomo che precipita.

Un aereo.

Una macchia nel cielo.

Un uomo che precipita.

Queste due fotografie strazianti sono figlie della stessa disperazione. Potrebbero essere due semplici immagini stampate su carta fotografica, quella carta che taglia l’aria e si conficca come coltelli nella testa. Quella disperazione dovrebbe appartenerci, dovrebbe appartenere a tutti noi. Dovremmo sentircela addosso.

Odio, intolleranza, pregiudizio, fondamentalismi.

Violenza , arroganza, viltà, menefreghismo, superficialità, noncuranza. Questi siamo noi. Tutto questo ci appartiene.

Non possiamo rimanere indifferenti, non possiamo. Eppure so che rimarremo a guardare, come per tutto ciò che non tocca i nostri privilegi, come per il genocidio in Ruanda, come abbiamo guardato con distacco tutte le Guerre Sante alle quali non ci siamo opposti, come abbiamo dimenticato una guerra che in Afghanistan dura da venti anni, come rimaniamo a guardare ogni giorno barconi di disperati che riescono a partire dai lager libici, dopo anni di viaggio, sperando nella salvezza sulla nostra terra o nella morte in mare, che sarebbe comunque più accettabile che il rimpatrio dagli aguzzini libici, pagati con i nostri soldi per nascondere l’immondizia, la desolazione che la nostra “benedetta” società occidentale produce.

La nostra immondizia, la nostra merda.

Siamo rimasti a guardare gli splendidi risultati del post-colonialismo in Africa. Era affar nostro quando eravamo li a far da padroni, a saccheggiare le loro terre, a denigrare la loro cultura. Poi abbiamo finto di andarcene, abbiamo diviso un intero continente a dadini e listarelle come una ben disegnata scacchiera ed abbiamo lasciato li i nostri fanti e i nostri alfieri. Di guardia.

Perché della loro cultura, del loro benessere, a noi, diciamoci la verità, non ci è mai fregato un cazzo. La loro povertà, le loro guerre, servivano a foraggiare il nostro benessere.

Abbiamo alzato muri, esportato armi, imposto dittatori. Abbiamo lasciato bambini morire nell’inferno delle miniere di diamanti, di coltan e cobalto.Ci serviva l’anello di fidanzamento più bello per fare invidia alle amiche, il brillocco più grande, il cellulare con le tecnologie più avanzate per farci i selfie.

E che importa se c’era chi, per costruire Oleodotti, per estrarre petrolio, insinuava in noi il germe della guerra giusta. Ci siamo convinti che la democrazia si potesse esportare con le armi, e no, non ci hanno convinti i media, lo abbiamo fatto da soli, perché ci potessimo permettere di non pensare, perché era più comodo non farlo, perché potessimo permetterci di chiudere gli occhi e continuare a vivere le nostre inutili, mediocri ed insulse realtà.

L’occidente, una mandria che ha bisogno di influencer per pensare: ci devono influenzare perché noi, a pensare da soli, evidentemente non siamo capaci. E nonostante sia palese che non abbiamo la minima capacità di pensiero indipendente, ci arroghiamo il diritto di avere opinioni.

Muti dovremmo stare. In silenzio.

Giorno dopo giorno, un anno per ogni anno di guerra di cui siamo stati complici.

A guardare questo orrore.

Ad ascoltare il boato delle mine antiuomo che fanno a pezzi bambini che giocano.

A guardare un padre disperato che tiene in braccio il suo bambino senza vita.

A guardare il corpo di un bimbo morto affogato su una spiaggia.

A guardare il sangue colare dalle gambe dalle donne violentate, massacrate di botte e piene di lividi.

Che non sia solo la condivisione di post pseudo intellettuali sull’argomento del giorno di finta indignazione.

Che ci entri nelle ossa, che ci dilanii, che diventi finalmente anche il nostro orrore.

Che diventi finalmente anche il nostro dolore. La nostra disperazione.

La disperazione di un uomo che precipita.