La mia Istanbul.

Resoconto pressappochista per i miei amici autostoppisti.

Vabbe, dovevano essere pochi giorni, stanno a diventà na fracca. 

Ma Istanbul li vale. 

Tutti. 

E’ enorme, bellissima, una babele di vestiti, da donne con burka a quelle tatuate con piercing. Passi dai quartieri spagnoli de Napoli, ai souk de Marrakesh. alla Ginza di Tokyo, a St Germain a Parigi o Bond Street a Londra. 

Quartieri divisi per cose.

Proprio pe COSE. 

C’è un’intero quartiere FERRAMENTA ( il paradiso della Poppins) , uno per i cessi ed i lavabi, uno per i lampadari, uno per le vernici, quello dei tessuti a metraggio e così via. 

So impazzita perché’ non mi capacitavo, ma alla fine, aho, e’ semplice ed ha senso. Ti serve un cesso, mica devi fa er giro del GRA. Stanno tutti la. Cristallino. 

Un compressore? Lungofiume quanti ne vuoi ( è che non li spediscono senno uno me lo ero comprato che me servirebbe pe la pistola sparachiodi). 

Interi negozi solo de chiodi, di tutte le misure e lunghezze, forme, colori, se cerchi bene ce trovi pure quelli che hanno usato pe crocifigge nostro signore. Però le viti no eh, quelle devi annà ar quartiere delle viti, senno è concorrenza sleale. 

Té e Tisane a diventa’ grassi, spezie a profusione, cocci, coccetti e pentolini che li dai a Copeland da de matto. 

E poi parti dall’alto eh, ma proprio in alto, cammini verso valle ed il tuo orologio tecnologico te dice che hai fatto 21 km. 

In SALITA. 

Un posto assurdo, pure dell’ alto monte al basso Bosforo, se va in salita, manco fosse la famosa strada de Ariccia. Per me ancora un mistero. 

Non ne vengo a capo. 

Ci sono il Marsia scuoiato e l’Alessandro Magno del museo archeologico, che oggi sono rimasta incantata a guardare avendo nella testa la conferenza sul viaggio di Alessandro di Baricco. 

Estasi.

Arte, cultura, e bellezza, un’esplosione di colori, stili, vestiti, voci, manca solo l’inglese, quello no, per carità’, che pe compra un biglietto della metro ho fatto su e giù pe un’ascensore 14 volte. “So cordiali i turchi, chiedi”. 

Si, chiedo, ma nun se capimo manco a gesti. E si che so italiana e li so fa benissimo eh. 

C’ hanno più bandiere turche cha abitanti. Manco in America. Peró belle. Non credo di aver mai visto bandiere cosi grandi. Nemmeno i campi de San Marzano de Acerra. 

Il bagno turco te lo fanno delle lottatrici di sumo che te rigirano come un calzino con tecniche da ex unione sovietica, ma che quando poi ti insaponano co LE BUSTE ( vere e proprie buste di stoffa gonfiate come palloncini piene di schiuma al sapone di Aleppo), Carla Fracci spostate.

E il cibo: io pensavo che noi italiani fossimo ossessionati. Nun lo siamo, fidatevi. Ho visto spiedini di kebab che glie mancavano le ruote e parevano giusto giusto autotreni parcheggiati. 

Peraltro co tutti i dolci super dolci che te propinano a tutte le ore del giorno e della notte non mi stupirei se la Turchia avesse il tasso de diabetici più elevato del pianeta.

Che poi pure cor traffico, me sento a casa, anche se la Pontina da noi a Pasquetta nun se batte. 

Pero a casa ce so tornata, nun so come, ma ce so tornata. In albergo vabbè, che data la permanenza non propriamente breve posso permettermi di chiamare casa. 

Perché Istanbul è cosi. Non sei neanche arrivata e hai già la voglia di tornarci. Di nuovo.

Anche quando parte lo sfraccamento de cojoni dei minareti a na certa ora, che pare che stanno a ammazza i polli. Certi Muezzin so pure quasi ascoltabili, quasi, ma altri so quelli che te fanno capì che pure qua in Turchia ce stanno i raccomandati. 

Vabbè, è perché so atea miscredente ed eretica, a me pure  “Tu sei la mia vita” me fa cagare. 

E la musica, lo so, so poco romantica, ma a me, co tutto il cuore, se nun sto a fa la danza der ventre a “Ballando co le stelle”, me stucca. 

A meno che tu non decida di andare in una delle tante discoteche della città dove trovi DJ di musica house così figa da diventare quasi pornografica. 

E poi apri Facebook e neanche a farlo apposta leggi un post di Anita Sur, su una bellissima parola turca. 

Una parola che esiste solo qui. 

Ebbene, l’ho visto stasera. L’intraducibile parola turca.

Yakamoz. La scia della luna sull’acqua.

Meravigliosa Istanbul.

Buonanotte.

—-

Non vi ho tediato con il resoconto giornaliero, ma due memorie da aggiungere erano doverose. 

Sono una guida turistica, capisco l’importanza di una visita guidata e me sparo due giorni di visita con guida. Io e lei. 

E niente, era mejo senza. Na cosa inutile. Santa Sophia non entriamo che c’è la fila, alla Moschea Blu non entriamo che c’è la fila ( diceva lei eh, io dopo due vaticani de sabato so pronta a tutto). Ha cercato di spillarmi soldi in tutti i modi possibili: te cambio io gli euro, te porto io a comprà dove se risparmia: nevvero, ndo m’ ha portato lei costava tutto er doppio, ma se sa, le guide prendono le stecche. 

Solo io no. Che c’ho sta cosa dell’etica professionale che me fotte, ma vabbè. 

Secondo giorno insieme, visita privata. A metà mattinata mi chiede candidamente se possono unirsi a noi altre tre persone, un’allegra famigliola di Udine. 

Io boh, vabbè number 2. 

E famoselo sto giro insieme in compagnia sur Bosforo pure che m’hai tolto un braccio pe na visita privata, che io già nun reggevo la guida, pensa co n’allegra famigliola che come ar solito, per mio grande culo, vota Salvini e attacca pipponi No Vax nun richiesti. 

La parte che mi ha quasi spinto al suicidio neuronale è stata in barca sul Bosforo: un cielo bellissimo, terso e sereno, con una manciata di candide scie lasciate dagli aerei. 

Potevano nun esse scie chimiche? Perché’ NUN CE LO DICONO, ma ce vojono ammazza tutti, tu non lo sai, ma sei te colui il quale e’ stato prescelto per la sperimentazione, in Italia lo fanno ormai da anni. Io ce so venuta proprio a Istanbul pe scoprillo. 

Sul Bosforo, una di quelle crociere super turistiche ma che merita se non altro per il paesaggio che altrimenti non vedresti: piccole insenature con splendide case colorate e ristorantini, palazzi storici tipo: la casa del sultano d’estate, la dimora del sultano in inverno, la umile super villa del sultano pe quando nun glie annava de fa un cazzo, il deposito del tabacco del sultano ( ben due veramente, tipo 5000 metri quadri ciascuno, ora alberghi super lusso,) ma è li che ho compreso il detto “fumare come un turco”. 

E poi tantissime navi cargo in rotta verso il Mar Nero cariche di gas e petrolio. Per l’Ukraina, dicono. Fa strano sapere che a soli 12 km c’e’ l’ingresso dal Bosforo al Mar Nero, pullulante di navi da guerra.

Comunque pare che i capitani russi alcolisti e ubriachi, ogni due e tre si incollino qualche splendida casetta aristocratica lungo la bellissima riviera bosforese entrando de prua sulle banchine, nel tentativo de fa un paio de curve sul canale. 

Io sta cosa la devo segui’. Te pare che non giri sui principali canali de informazione tipo TIKTOK. 

Istanbul, dicono 18 milioni di abitanti.

Nun è vero, so deppiù. Molti de più, giuro. E a occhio e croce stanno tutti a passeggià a via dell’indipendenza, tra piazza Taksim e Sishane, tipo 4 isolati. Se nun ve prendete er Covid qua, fidateve, nun lo prendete più. Carcola che hanno 43 sindaci. 

Ma più degli Instanbullesi, so i gatti. Cani de meno ma non menissimo, e comunque tutti a zonzo, grassi come vitelli sacrificali e felicemente a prendere il sole sui tappetini dell’ingresso dei ristoranti. Er paradiso delle gattare de Roma e a sto punto, del mondo. Nun venite in pensione qui. Ve costa più de cibo pe gatti che de alloggio. 

C’è da dire che i turchi non sono arabi, anzi, se glie dai dell’arabo se incazzano: i paciosi Instabbullesi ( instanbullari, instabbularegni? ), te potrebbero mette le mani addosso se glie dici arabo: che “a loro della religione frega cazzo, che il sultano, quando c’era, manco e’ andato mai alla Mecca e siccome se rompeva i cojoni de ariva’ in moschea a 200 metri a piedi, se faceva veni’ l’Imam a casa na volta ar mese, giusto pe di, qualcosa faccio”. 

“E porcoddue Erdogan e chi l’ha votato, zotici campagnoli che se ce capitano a tiro li famo diventà arabi a pizze due a due e li spediamo in Arabia Saudita cosi ce li togliamo pure dai cojoni.“ 

Questa la sintesi della fraterna coabitazione dei popoli qui a Babelistanbul. 

No, i turchi NON parlano l’arabo ma na lingua Uralo-slava, che a legge je la fai ma a sentirla pare arabo. Der tipo che leggi na cosa scritta “palla” e se pronuncia  “udgdhgjkkk”. Però che pare arabo nun je lo poi dì ai turchi che se incazzano. 

Istanbul è costruita su due continenti, parte Europa, parte Asia. Nella zona asiatica, attaccate, proprio de fila, ce stanno: una moschea, una chiesa cristiana armena, una sinagoga. Un angolo dopo una chiesa cristiana ortodossa di rito greco. Insomma, a Istanbul so schizofrenici ma inclusivi. 

La zona asiatica è un gioiello, chicchettosa ma alla mano, piena di localini alla moda ma anche trattorie locali, orti urbani pubblici, forni storici e pochissimi turisti. 

Come ar solito, in SALITA. 

“Discesa” deve esse na parola araba che loro pe principio non usano, e per lo stesso principio, le hanno tolte pure dalle strade. 

Cena in gustosissima e carinissima trattoria locale, tipo covo de Messina Denaro, suggeritami da un amico toscano. 

Litrami di Raki e c’ho messo un po’ pe trova la strada de casa. 

Anche oggi. 

Che dire. Qua a Istanbul è bona pure l’insalata. 

Ed è di nuovo tempo di Yakamoz.

Stanotte dormirò da sola

Un piccolo camenerio è spuntato tra le mie macerie. 

Immobile, l’ho osservato germogliare.

Non sopravviverà, ma in fondo, è pur sempre un fiore. 

Non nutro speranze, ma è bello e al contempo dilaniante guardarlo farsi strada con tenacia tra cumuli di polvere e pietre. 

Così piccolo, così fragile e allo stesso tempo così determinato.

Vorrei potermene prendere cura, ma ogni sentimento ha il suo destino e la sua strada: un viaggio da compiere. 

Non si può cambiare il corso delle cose.

Così, vigliaccamente, fingo di ignorarlo.

Non me ne vorrà male, quel piccolo fiore. 

Non ho più lacrime per innaffiarlo, né più sorrisi per nutrirlo. 

Il tempo ci rincorre spietato.

Ma lo ringrazio per tutto il colore che ha inaspettatamente, con leggerezza, dipinto su questa tela bruciata. 

Non voglio più conoscere il colore del grano. 

Non voglio più addii. 

Il nostro abbraccio è durato troppo a lungo.

Abbiamo amato fino all’osso.

Sento le ossa macinare, vedo

i nostri due scheletri.

Ora sto aspettando

che tu te ne vada, che

il rumore delle tue scarpe

non si senta più. Ora, silenzio.

Stanotte dormirò da sola

sulle lenzuola della purezza.

La solitudine

è la prima misura igienica.

La solitudine

allargherà le pareti della stanza,

aprirò la finestra

e l’aria grande e gelida entrerà,

salutare come la tragedia.

Entreranno pensieri umani

e preoccupazioni umane,

le disgrazie degli altri, la santità degli altri.

Converseranno dolcemente e severamente.

Non venire più.

Sono un animale

molto raramente.

All 4 Nothing ( I am so in love)

“Quando una donna si mette da parte,
non lo fa per vigliaccheria,
per senso di inferiorità o insicurezza.
Ci sono casi dove, andarsene,
sparire e allontanarsi dalla vita di qualcuno,
è un atto dovuto a se stessa.
Quando una donna, dopo aver lottato,
piomba in un silenzio,
accompagnato da un senso di rassegnazione,
non lo fa per debolezza,
ma ciò che la guida è una forza spaventosa
che la riconduce verso la lucidità e la razionalità,
perché dove non ci sono orecchie per capire
non devono esserci più parole per spiegare.”

Inizio questo pezzo di diario con il titolo di una canzone che mi ha tenuto compagnia per qualche settimana.

E’ una canzone di quelle pop di cui il più delle volte ti vergogneresti un pò, ma alla fine, che mi piaccia o no, pur sapendo che non era amore, ha saputo descrivere in musica la bella emozione che mi portavo dentro.

Durante il tragitto verso il lavoro, al ritorno, in casa mentre allegramente combattevo l’entropia, mentre preparavo pacchetti da mettere sotto l’albero di natale.

E se è vero che poi ad un certo punto le emozioni ti tocca riporle in un cassetto, è pur vero che fanno parte di un pezzo del tuo diario di viaggio. E quelle intense sono così rare, non le si può semplicemente gettare via: vanno riposte con cura.

E’ stato bello, è stato forse troppo breve, ma per quel che è durato, è riuscito a sciogliere un pezzetto di quell’iceberg di delusioni che mi porto dentro.

Ora ci sarà da lavorare sull’assenza, sulla mancanza, sull’amarezza, ma come tutte le cose, nel bene e nel male, purtroppo o per fortuna, anche questo piccolo dolore passerà. E quando accadrà, forse un pò mi dispiacerà.

Il tempo sarà la pioggia che tutto porta via, anche lacrime e malinconia.