Stasera non ci sono.

“Spesso, con gli esseri umani, buoni e cattivi, i miei sensi semplicemente si staccano, si stancano: lascio perdere.
Sono educato. Faccio segno di si. Fingo di capire, perché non voglio ferire nessuno.
Questa è la debolezza che mi ha procurato più guai.
Cercando di essere gentile con gli altri spesso mi ritrovo con l’anima a fettucce, ridotta ad una specie di piatto di tagliatelle spirituali.
Non importa, il mio cervello si chiude. Ascolto. Rispondo.
E sono troppo ottusi per rendersi conto che io non ci sono.”

Sarà una forma di egoismo, sarà il rifiuto della banalità, del quotidiano parlare del nulla, ma io, a volte, non ci sono.

Me ne accorgo sempre più frequentemente: accade che io d’un tratto, non ci sia più.

 “Amo i solitari,  i diversi, quelli che non incontri mai. Quelli persi, andati, spiritati, fottuti. Quelli con l’anima in fiamme.”

Li amo perché nonostante l’apparenza, le misure, l’ apparente leggerezza, io sono una di loro.

Io ho l’anima in fiamme ed ho bisogno di fuoco.

Io ho l’anima in fiamme, non per disagio, non per scelta.

Io ho l’anima in fiamme e non saprei vivere in nessun altro modo che non sia bruciando, silenziosamente, intimamente, nel mio mondo privato a volte inaccessibile anche a me stessa.

E’ un destino a cui mi sono serenamente rassegnata.

Qualche sera fa, ho riaperto sbadatamente un libro di poesie che ho odorato e letto tante volte, i cui versi tante volte avrei voluto condividere e che causa forse di lunghi , volontari periodi di solitudine interiore, ho sempre tenuto per momenti intimamente privati, dove l’unica improbabile ascoltatrice di quelle righe dense di vita, era la mia anima.

“ Venti Poesie D’amore ed una Canzone Disperata”.

Con lui risorge una dedica antica. Una dedica pungente, ammaliante, una dedica piena di futuro di cui ormai non rimangono che le vestigia di un flebile trapassato remoto.

Ho amato quella dedica quasi più del libro sul quale è stata scritta.

Amavo la persona che la scrisse più di tutti i miei libri.

Perché lui era un libro, lui era IL LIBRO da leggere, sfogliare, odorare. Un libro intensamente stropicciato, popolato di china fresca,  urlato con tutte le parole del mondo.

Perché lui era un libro pieno di pagine bianche che sapevano darmi sempre una nuova, sottilissima prospettiva, raccontarmi ogni volta, un finale diverso.

Lo amavo perché ““Amo i solitari,  i diversi, quelli che non incontri mai. Quelli persi, andati, spiritati, fottuti. Quelli con l’anima in fiamme.”

Lo amavo perché era tutto questo e perché aveva l’anima in fiamme.

Che lo amavo lo seppe quando era ormai troppo tardi, quando aveva ormai smesso di desiderare, di sentire, di sognare.

Che lo amavo, forse lo seppe davvero troppo tardi, quando forse era davvero, definitivamente fottuto.

Non mi sono innamorata spesso nella vita.

Le persone si innamorano con una facilità impressionante, io sono sempre stata incredibilmente lenta, terribilmente selettiva.

Ho accettato spesso e  di buon grado la compagnia di ragazzi vivaci, simpatici e divertenti, ma amato, molto poco, raramente e male.

Ho celato goffamente la carenza di amore, seppur sostituendola con un’incredibile dose ti tenerezza, ma amato forse davvero troppo poco.

Quel poco è stato tuttavia così intenso da avermi in qualche modo intrappolato tra me stessa e lo slancio che l’amore stesso ci chiede.

Così intenso da sembrare troppo prezioso perché un flebile e triste surrogato ne prendesse il posto.

Così intenso da volerlo proteggere dal futuro che troppo spesso e troppo velocemente ne offusca il ricordo, ne cancella repentinamente i tratti più intimi e delicati.

Così intenso da volere a tutti i costi preservarne la memoria.

Così violento forse, da spaventare questa piccola, razionalissima, impacciatissima me, che ancora sente di aver compreso così poco il mondo. Che ancora  ha compreso così poco di se stessa.

Ho amato poco e male.

Io non so amare molto bene, però voler bene si, quello lo so fare.

Non sono la classica donna che qualcuno potrebbe volere come madre dei suoi figli o come perfetta donna di casa, però so prendermi cura delle cose, delle persone.

Cosi mentre ancora mi avventuro nelle tortuose strade della vita, pur non conoscendo l’amore, ancora ho il desiderio di fermarmi sul bordo del sentiero e raccogliere un fiore da portare ad un’amica, ancora voglio odorare il muschio che mi ricorda delle notti a far campeggio nei boschi insieme ai miei affetti, ancora voglio cercare di dare un senso a questa mia esistenza e a questo cuore che nonostante tutto, sa battere forte, fortissimo.

Lui è uno di quelli che ha sotterrato tutti, tranne me.

A volte vorrei lo avesse fatto, perché vederlo chiudersi in una bolla di dolore, morfinizzandosi di hashish per non sentire, non sentire più nulla, raggomitolarsi nella più improbabile ciambellina di Calabi Yau dove non c’è più spazio per l’altro, per gli altri, mi ferisce profondamente.

C’è chi brucia per sopravvivere e chi per disperdesi.

Quelli come lui mi fanno rabbia, perché magari persa, andata, spiritata, fottuta, magari assente, ma non ho paura di voler bene.

Come fai a spiegar loro che stanno buttando via la vita, come fai, quando lo fanno con una meticolosità ed una grazia che lascia senza fiato.

Voler bene è un dovere, quando si riceve amore.

E se di doveri non si vuole proprio sentir parlare, per anarchia, per ribellione, per indisciplinatezza, incostanza, inedia, che allora lo si voglia per umanità.

Almeno per umanità.

Chi non ha cura non merita cura, ma io non so fare molto altro, così mi prendo cura delle cose, delle persone, non per immolarmi all’oblio di chi non sa dare nulla in cambio, quanto perché la cura mi ricorda che un altro mondo, dove “voler esserci”, esiste.

Quel poco che riesce a dare, lo vuole dare a me.

Solo a me.

Dovrei esserne contenta.

Dovrei.

Invece sto li immobile a guardare il fantasma di se stesso svanire e sfracellarsi.

O più semplicemente, non ci sono, non ci sono più.

Ho smesso di amarlo, “ epilogo banale”.

Ho smesso di amarlo ma non di prendermi cura di lui.

Lui lo sa, a volte prova a tendermi la mano, ma mi vuole con le sue regole, regole che escludono qualsivoglia tipo di cura, di tenerezza, di reale vicinanza.

Posso rinunciare all’amore, posso accettare la solitudine e farne destino, ma mai potrei rinunciare alla cura che così tanto mi fa sentire umana.

Forse la cura è il solo modo che conosca per sentire il senso delle cose, per rimanere e per esserci.

Non tornerei indietro, ma quello che ho davanti non mi consola.

Non tornerò indietro, ma quelli come me, si aspettano miracoli destinati a non avvenire mai.

Quelli come me scelgono i miracoli proprio perché destinati a non avvenire mai.

Ed il miracolo più grande sarebbe tornare ad amare, o finalmente, imparare a farlo.

Rimetto a posto il libro di poesie, metto su Johnny Cash e mi siedo a scrivere queste righe in notturna.

Stasera non ci sono. Rispondo al telefono, sono gentile, educata e fingo di capire, rispondo.

La verità è che non ci sono.

La verità è che stasera, senza senso forse, senza logica, ma ho l’anima in fiamme.